mercoledì 30 settembre 2020
Pandemia ed educazione civica della filosofia
I primi giorni di scuola hanno messo ogni docente di fronte alla necessità di spiegare ai ragazzi qualcosa in più sulla pandemia di quanto essi non possano approfondire altrove; un ‘in più’ che non è certo quello estensivo di aggiungere notizie a notizie o, ancora peggio, predica a predica, ma che invece deve essere l’analisi puntuale dei concetti che in maniera organica possano andare nella direzione di costituire una persuasione psicagogica in cui dalla sapienza discenda la saggezza nei confronti del virus che sembra aver bloccato il mondo contemporaneo.
Il termine pandemia che oggi è sulle labbra di tutti ha bisogno innanzitutto di una sua spiegazione etimologica; come la maggior parte delle parole che la medicina contemporanea ha preso in uso dalla antica medicina greca, il termine pandemia indica quel fenomeno per cui un virus tende a diffondersi su tutto (pan) il popolo (demos); diremmo oggi, con un termine più adatto, su tutta la popolazione. Una popolazione che, presa appunto nella sua totalità, non è la popolazione di una città o anche di uno stato ma, nell’età del fenomeno della globalizzazione, una popolazione globale; una popolazione che viene investita in tutti gli angoli del nostro pianeta. Avevamo finora visto virus informatici diffondersi da un capo all’altro della rete globale in poche ore se non in pochi minuti; non avevamo invece assistito allo stesso fenomeno in termini biologici. Dallo scorso marzo del 2020, il fenomeno di una pandemia biologica globale non è stata dunque solo un’ipotesi delle previsioni più lungimiranti di uomini, come Bill Gates, che hanno fatto la storia della globalizzazione informatica del pianeta; il fenomeno della pandemia biologica è divenuto una cruda realtà che ha colpito in poco tempo tutti e cinque i continenti. Dai mercati umidi (wet markets) in cui la macellazione degli animali avviene nel momento stesso dell’acquisto, il virus si è diffuso attraverso la Cina e L'Asia per giungere quindi all’Europa, alle Americhe, all’Africa e alla stessa Oceania. Questa è l’idea su cui sembra concordare la maggior parte degli scienziati che esclude la possibilità di un virus che sia sfuggito da uno dei laboratori scientifici di Wuhan; a Wuhan, piuttosto, il virus, ci dicono gli scienziati, ha fatto il cosiddetto salto di specie (spillover) dal pipistrello all’uomo. Sennonché prima di affrontare questo tema bisognerà fare un ragionamento sulla conoscenza scientifica su cui c’è un diffuso velo di scetticismo da una parte all’altra del pianeta; una vera e propria pandemia dell’ignoranza che sembra aver anticipato già da molto tempo quella della biologia.
Le parole del viro-logo, dell’epidemio-logo, del bio-logo, del fisico, del socio-logo e dello psico-logo (figura che deve sempre più affiancare quella del fisiologo nel contrasto ai timori e ai traumi individuali e collettivi che questo momento si generano nella popolazione) sembrano non avere quell’incidenza completa che esse dovrebbero assumere di fronte all’opinione pubblica mondiale; l’opinione (doxa), appunto, che crede di poter sollevare dubbi e sfiducie nei confronti di chi studia nel segno del logo, della ragione (logos). E’ un clima, quello della sfiducia nella scienza, che nel mondo contemporaneo si accompagna sempre di più a quello della sfiducia nella politica e in specie delle democrazie parlamentari. Ma stiamo al tema. La prima esigenza infatti che si pone di fronte a un docente che debba parlare a dei ragazzi della pandemia non può eludere un discorso che innanzitutto riaccrediti la scienza e ne spieghi, anche per esigenze didattiche, il paradigma.
Se, già nell’antichità, Pitagora e Democrito avevano parlato della risoluzione della realtà e della sua conoscenza nei numeri e negli atomi e la stessa medicina greca aveva posto un accento fondamentale sul momento dell’osservazione come momento costitutivo del sapere scientifico (Jaeger), è nell’età moderna, grazie all’opera di Galilei e Newton, che la scienza costruì il suo modello epistemologico; un modello in cui dal Seicento fino ai giorni nostri si risolve ormai lo stesso logos ovvero la stessa ragione a cui gli uomini guardano come fonte di razionalità teorica e anche pratica. Si dice ad ogni passo che «la matematica non è un’opinione (doxa)» e dunque, fino almeno alla temperie culturale di qualche decennio fa, si tendeva a prestare fede solo a quelle discipline che avessero costituito la loro razionalità sulla razionalità matematica; di fianco all’adagio secondo cui si ascoltava e si ascolta che «la matematica non è un’opinione» andava e va di pari passo l’altro adagio secondo cui si ascoltavano e si ascoltano le parole per cui «se non vedo non credo». Due espressioni diffuse che in fondo testimoniano bene il radicamento popolare della mentalità scientifica che Galilei esprimeva così in una lettera alla regina Cristina di Lorena: «Pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno essere revocato in dubbio». Un’idea che si ripete nella Critica della ragion pura di Immanuel Kant dove il filosofo di Königsberg, intento proprio a strutturare filosoficamente il sapere delle scienze, scrive: «Senza sensibilità non ci verrebbe dato nessun oggetto, e senza intelletto nessuno ne verrebbe pensato. I concetti senza intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche». Insomma, dalla riflessione scientifica di Galilei fino alla riflessione filosofica di Kant, passando per una numerosa schiera di scienziati e filosofi, le basi della ragione moderna sembrano appunto essere state risolte nei due momenti della osservazione del dato empirico e nella sua matematizzazione. E’ questo, quello dell’osservazione dell’esperienza, della riproduzione dell’esperienza e della sua osservazione nell’esperimento, e della finale matematizzazione, il paradigma scientifico dentro cui studiano e operano gli scienziati oggi; e, più specificamente, dentro cui, di fronte al virus, si muovono virologi, epidemiologi, biologi, fisici, sociologi e gli stessi psicologi. Per i ragazzi può essere portato ad esempio il momento scientifico che li ha accompagnati fino dalle prime loro esperienze sanitarie, il momento delle analisi del sangue. Chi non ha visto fin dalla sua fanciullezza il prelievo del sangue? Quel sangue viene aspirato con un ago e finisce dalla siringa alla provetta; è il momento del prelievo e della custodia del dato. Sennonché attraverso il semplice sguardo dell’osservazione empirica di quanto il sangue sia più o meno denso o più o meno rosso noi non possiamo sapere se il nostro organismo è sano o meno; il sangue della provetta deve essere analizzato, ovvero ricondotto a dei parametri matematici che vengono poi rilasciati sul foglio del referto che ci indica appunto qual è il nostro stato di salute. Uno stato che il medico individuerà grazie ai valori numerici dei globuli rossi, dei globuli bianchi, delle transaminasi e così via dicendo. Questa è l’emato-logia, e ci testimonia fin dalla nostra infanzia, quale sia il processo con cui si costituisce il sapere a cui noi crediamo; quel sapere che si costituisce sul prelievo del dato, sulla sua osservazione, sulla sua analisi e sulla sua risoluzione in un paradigma matematico. Chi dobbiamo ascoltare dunque oggi sul virus, come abbiamo imparato fin da fanciulli per gli ematologi sul sangue, se non virologi, epidemiologi, biologi e fisici? Ascoltarli anche nelle loro discussioni pubbliche dove sembrano leggere il fenomeno della pandemia con diverse sfumature di interpretazione; questo potrebbe prestare il fianco alle critiche dei cosiddetti ‘negazionisti’ ove essi indicano nelle dispute degli scienziati una testimonianza che toglie la credibilità appunto alla scienza. Sennonché è proprio la filosofia che ci è stata testimoniata dall’intramontabile figura di Socrate che ci dice come la disputa dialogica non invalidi la conoscenza ma sia invece proprio la scaturigine della conoscenza stessa. Da Socrate a oggi infatti è bene precisare che la verità, la ragione, il logos, non è un fatto privato ma il risultato di una discussione polifonica e pubblica. Il chiedere e dare ragione di uno scienziato con l’altro è proprio la via fisiologica che ci ha permesso di costruire e aggiornare il nostro sapere con le sue ricadute pratiche e benefiche per la nostra salute.
In questo senso, quello della costruzione comunitaria e dialogica del sapere scientifico, si muovono le stesse organizzazioni di ricerca e di attuazione proprio dei programmi di salute pubblica. Che possiamo individuare, a livello mondiale, nell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) fondata fra il 1946 e il 1948 con sede a Ginevra; e, a livello italiano, nell’Istituto Superiore di Sanità (IIS) fondato nel 1934 con sede a Roma; nel più ampio centro di ricerca italiano che è il Centro Nazionale delle Ricerche (CNR) costituito nel 1923 e divenuto statale nel 1945; sappiamo poi come, con l’inizio della pandemia, il governo italiano abbia istituito il Comitato Tecnico Scientifico (CTS) ai fini di regolare la propria azione nella gestione della pandemia in Italia; abbiamo citato solo gli esempi più noti e di carattere pubblico così come a fianco ad essi indichiamo le due maggiori riviste scientifiche a cui tutti i ricercatori del mondo si riferiscono per la discussione pubblica di ogni teoria che voglia assumere appunto un suo statuto legittimo nel sapere umano: sono «Nature», pubblicata fin dal 4 novembre del 1869 e «Science» il cui primo numero risale al 1880. Qualora dunque vogliamo sapere qualcosa oggi sul Covid-19 è solo nella dimensione scientifica dell’osservazione, dell’analisi (matematica) e della discussione che possiamo orientarci sia in ordine alla conoscenza che ai nostri comportamenti pratici.
E la filosofia? Cosa ci dice oggi la filosofia qualora essa venga interpellata sul fenomeno mondiale ed epocale della pandemia? Innanzitutto la filosofia invita appunto a stare alle discussioni e alle prescrizioni degli scienziati; sennonché essa non può fermarsi a questo ma proprio rispetto a quanto ci dicono gli scienziati si muove, poi, per dare una visione generale, oltreché sulla scienza, sulle stesse idee di natura e di uomo che emergono di fronte ai nuovi scenari.
Abbiamo visto come la scienza sia concorde nel dire che il virus con cui oggi siamo alla prese abbia fatto il «salto di specie» (spillover) dal pipistrello all’uomo nei mercati umidi (wet markets) di Wuhan e poi si sia diffuso per l’intera popolazione mondiale; la filosofia dunque ci indica come già nella espressione del «salto di specie» ci sia implicita l’idea che sia il pipistrello che l’uomo non sono altro che specificazioni della natura; se infatti il virus è potuto passare dal pipistrello all’uomo e da uomini ad altri uomini è evidente che la natura sia una e omogenea quanto alla sua struttura di fondo; che non vi siano esseri naturali viventi che possano godere di posizioni di privilegio, ossia che abbiamo una loro privata lex per cui non debbano essere ricondotti al medesimo ordine cosmico. In questo senso la filosofia si è espressa in maniera perentoria fin dalle sue origini e a testimonianza di ciò possiamo chiamare Eraclito che nel suo Frammento 30 scrive: «questo ordine universale che è lo stesso per tutti né un dio, né un uomo lo fece ma sempre è, era, e sarà fuoco sempre vivente che si accedente e si spegne secondo giusta misura»; l’incipit del frammento è perentorio nel dire che l’ordine universale della natura di «ciò che viene alla luce», physis, è lo stesso per tutti; e così è stato, era e sarà, senza nemmeno privilegi temporali oltre che di specie, come Leopardi ci dice sulla natura, «dell’uomo ignara e delle etadi», in una dimensione che oltre a essere legislatrice di stessa è anche causa della sua stessa esistenza (causa sui). Insomma: l’uomo è, a volerla dire con Spinoza e a sottoscriverla con il «salto di specie» del virus dal pipistrello a noi e fra noi, una particula naturae, una piccola parte della natura; una natura fra le nature.
Il concetto filosofico con cui innanzitutto oggi dunque la pandemia ci deve riportare a familiarizzare è il concetto dell’umana eco-appartenenza (Franceschelli); dobbiamo rifamiliarizzare con l’idea che non sia la natura ad appartenere all’uomo ma che è l’uomo ad appartenere alla natura; è un concetto caro all’intera filosofia presocratica e che ritorna in autori moderni come Hume e Spinoza; fino all’Ottocento di Feuerbach e di Darwin; per arrivare alla contemporaneità nell’opera di Karl Löwith e segnatamente nel suo Dio, uomo e mondo (1967). La filosofia che fa dell’umana eco-appartenza il suo baricentro concettuale non vuole certamente ridurre la specificità dell’intelligenza e l’altezza dell’uomo ma vuole ricondurre questa intelligenza e la sua stessa altezza alla filiazione originaria proprio con la natura (Darwin). Proprio in questa consapevolezza la mente che vede dell’uomo parrà la sua nobilitate. Una nobiltà in grado di andare incontro alle altre nature fino a riconoscere «l’intelligenza delle piante» (Mancuso); in un canto dei cantici della filosofia e del logos che possa correggere, esso sì e non i deliri negazionisti, quella scienza e quella tecnologia che pensino, in questa nuova era che è stata battezzata come antropocene, ovvero della capacità dell’uomo faber di trasformare la natura, nel macrocosmo che lo circonda fino al microcosmo genetico di cui è costituito, a un’onnipotenza dell’uomo sulla natura. Quella presunta onnipotenza che ci porta a edificare in zone sismische e vulcaniche; a sbilanciare i nostri rapporti con gli altri esseri viventi come gli animali e le piante; a emettere nell’atmosfera tonnellate quotidiane di anidride carbonica e a sbilanciare la chimica bioelementare dentro cui si mantiene la salute e la vita stessa dell’uomo; che ci porta, per venire alla quotidianità più stringente, a violare le condizioni della nostra stessa sopravvivenza nel sistema naturale in una mascherina relegata sul gomito.
La filosofia insegna dunque, nell’occasione che le dà questo fenomeno globale della pandemia, che la natura è la casa (oikìa) dell’uomo e che di questa casa l’uomo non è il padrone ma un coinquilino; che la sua permanenza in questo condominio naturale può collocare pure la sua posizione all’attico dell’intelligenza ma che tale posizione è moneta sia di emissione che di affitto appunto della intelligenza e della sapienza della filosofia; dell’amore del sapere e non dell’amore del potere o addirittura dell’amore dello strapotere; la filocrazia e la plutofilia sono l’opposto della filosofia; a voler fare un esempio, se la filosofia ci insegna a guardare con rispetto tutto ciò che è natura fra le nature come l’uomo, la filocrazia e la plutofilia ci inducono allo strabismo di scambiare l’asintomaticità del Vesuvio con la sua innocuità; ad edificare alle sue pendici e a disinteressarci dei progetti di evacuazione in caso di eruzione solo in vista di un piacere minore della vita come può essere il piacere del profitto.
Quanto si sta dicendo può sembrare una predica di un sacerdote o una più laica ma sempre residuale omelia del filosofo; il concetto di biofilia elaborato dallo scienziato americano Edward Wilson e spiegato come «l'innata tendenza a concentrare la nostra attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda e, in alcune circostanze, ad affiliarvisi emotivamente» ci mette al riparo da quelle che potrebbero essere viste come semplici parole trascurabili. Il sì alla vita di Nietzsche non può essere risolto come poi faceva il filosofo tedesco in una improbabile volontà di potenza; tale sì alla vita deve invece essere condotto in un oculato calcolo dei piaceri a cui già nell’antichità chiamava Socrate come alla volontà di sapienza (philosophia) che indicava per l’uomo la gerarchia dei beni fino a quello sommo. Se certamente per l’uomo dunque le ricchezze e la fama possono essere un piacere, esse non sono quel piacere che è rappresentato dalla «innata tendenza a concentrare la nostra attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda e, in alcune circostanze, ad affiliarvisi emotivamente». Chi, a voler stare al tema stringente della pandemia, non ha potuto sperimentare, pure nella più ricca delle case, l’asfissia emotiva del lockdown; e chi, nell’estate successiva al lockdown, non ha potuto ricominciare a respirare in una passeggiata in montagna o in un bagno al mare? Chi non ha sentito la riconciliazione con la natura e magari ha esclamato, durante quella passeggiata o quel bagno, «ah, mi sto riconciliando con me stesso!». Dove quella riconciliazione era proprio l’uscita pure dalla casa costruita magari in virtù della più coltivata plutofilia e la gratificazione di quella «innata tendenza a concentrare la nostra attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda e, in alcune circostanze, ad affiliarvisi emotivamente». Ad affiliarsi emotivamente a quelle nature che insieme alla nostra natura costituiscono la natura naturata di Spinoza e sono la condizione perché la nostra stessa intelligenza si elevi alla somma felicità della letizia ovvero all’«unione della mente con la natura» che solo l’amore per il sapere ci può dare lì dove si risolve nell’unità con la stessa natura naturante.
E’ una filosofia del limite, quella della vera filosofia, che certamente, pure rispetto ad essa stessa, non ci deve far dimenticare, insieme alla nostra ecoappartenenza, l’insieme di letizia e sofferenza che è l’uomo; che si traduce in saggezza quando ci ricorda nella letizia la sofferenza e nella sofferenza la letizia. «In tristitia ilare, in ilaritate tristis» ammoniva, addirittura nel titolo di una sua opera, Giordano Bruno, cultore anch’egli della filosofia che ci dice come l’uomo sia natura fra le nature, eco-appartenenza. Un’eco-apparteneza che, proprio rispetto alla letizia e alla sofferenza, non può che essere un’eco-apparteneza solidale (Franceschelli). Che non può essere dimentica delle sofferenze, per esempio proprio nella pandemia, che toccano agli altri addirittura fino alla morte. E in quel punto, nel punto della morte, se l’omelia del sacerdote prospetta per chi si diparte proprio dall’eco-appartenenza una nuova iperuranica appartenenza, un’appartenenza al regno di Dio, quale omelia rimarrà al filosofo naturalista che non crede in quell’appartenenza nuova. Quale sarà la sua parola per le sofferenze e la stessa morte di una giovane vita spezzata a 33 anni dal Covid come quella dell’operatore sanitario Fabio Lecis che è spirato lungo la corsa di un’ambulanza medicalizzata senza nemmeno poter giungere alla terapia intensiva dell’ospedale di Cagliari? La filosofia non ha omelie né per ammonire né per consolare. La filosofia è ragione tanto nel momento della teoresi quanto nel momento della pratica; e nella pratica, dopo l’innata tendenza ad affiliarsi emotivamente a chi rimane, può assumere e invitare ad assumere di fronte alla morte quella che è una pedagogia della sofferenza; a trarre da quella vita spezzata l’impegno a vivere più a fondo nella saggezza la propria stessa vita; nel caso specifico e in un orizzonte futuro, che non sembra poi nemmeno troppo breve, ad osservare le regole del distanziamento sociale, della profilassi della mascherina e dell’igiene delle mani. Sembra una sciocchezza di fronte alla morte ma ad oggi non sembra ancora una sciocchezza che è capace di intendere chi ha fatto della plutofilia, dell’amore del denaro e della tracotanza, di contro alla filosofia, dell’amore del sapere e della sobrietà, il suo principio esistenziale totalizzante. Inducendolo e sponsorizzandolo continuamente nei giovani. Quei giovani che, come ognuno di noi, veramente usciranno migliori da questo fenomeno epocale se impareranno a fare i conti con la sapienza e la saggezza a cui questo momento li chiama; il compito di un insegnante di filosofia è far fare loro questo percorso, farlo con loro; che, di fronte alla fragilità naturale a cui in ogni tempo la vita ci espone, di nuovo ognuno diviene giovane; giovane, per dirla con le immagini del Simposio di Platone, inesperto per la mancanza, penìa, ma anche entusiasta di quell’ingegno, poros, che la madre natura ci ha dato nel costituirci strutturalmente amore, eros, e amore del sapere, philosophoi! philosophai!
Bibliografia essenziale
W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, trad. it di A Setti, Firenze 1954
I Presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di G. Giannantoni, Roma Bari 1979
G. Galilei, Opere, a cura di F. Brunetti, Torino 1996
I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di Pietro Chiodi, Torino 1967
B. Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata, a cura di E. Giancotti, Roma 1995
O. Franceschelli, Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza della filosofia, Roma 2014
K. Löwith, Dio, uomo e mondo, a cura di O. Franceschelli, Roma 2000
C. Darwin, L’origine dell’uomo, a cura di G. Montalenti, Roma 2006
E.O. Wilson, Il futuro della vita, a cura di T. Pievani e S. Frediani, Torino 2004 .
S. Mancuso, Verde brillante. Sensibilità e intelligenza nel mondo delle piante, Firenze 2015
Platone, Dialoghi filosofici, a cura di G. Cambiano, Torino 1970
Giuseppe Cappello
Roma 27 settembre 2020