I. CONTRIBUTI: Stefano Sassaroli

sabato 27 giugno 2020

 

NATURA E COVID-19

 

L’amico Orlando Franceschelli azzarda la previsione che l’attuale pandemia – che prende sempre più la forma di un’immane tragedia sanitaria e che potrebbe infine innescare una grave recessione dell’economia mondiale – potrebbe indirizzare l’interesse di qualche spirito curioso a fare, o meglio rifare la più interessante delle scoperte: l’esistenza di una Natura autosufficiente e della quale noi umani siamo solo una piccola, infinitesima parte, forse persino insignificante; mentre i più credono ancora che la nostra vita non dipenda integralmente dal corso della natura ma da cose extranaturali, come se l’uomo appartenesse piuttosto ad un regno separato da quello della natura. Punto di vista giustamente avversato da Spinoza: «Imo hominem in natura veluti imperium in imperio, concipere videntur». E aggiungeva che i più credono anche che l’uomo perturbi l’ordine della natura, cioè credono di avere un potere assoluto sulle proprie azioni, quando in realtà queste sono determinate dalla sola potenza della natura. Questa scoperta era già maturata all’origine del pensiero occidentale, benché spesso offuscata da miti salvifici e favole religiose credute dal volgo. La lettura di Lucrezio, seguace della scuola atomistico-epicurea, ci ricorda che la Natura non è stata fatta per noi, al fine di soddisfare i nostri bisogni e desideri: «Quorum omnia causa constituisse deos cum fingunt, omnibu’ rebus magno opere a vera lapsi ratione videntur. Nam quamvis rerum ignorem primordia quae sint, hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim confirmare aliisque ex rebus reddere multis, nequaquam nobis divinitus esse paratam naturam rerum: tanta stat praedita culpa». Piuttosto, com’è confermato dalle scoperte della scienza moderna, noi siamo stati fatti dalla Natura, ma senza alcuna intenzionalità e senza alcuno scopo, tantomeno in vista della nostra salvezza e felicità, come invece ancora oggi sostengono le religioni mosaiche e monoteistiche secondo le quali il cielo e le terra sono stati creati da un Dio buono e onnipotente appunto per la nostra felicità e salvezza. Non ci può essere dubbio che la saggezza degli antichi filosofi, ora confermata dalle moderne scoperte scientifiche e in particolare dalla teoria dell’evoluzione per selezione naturale di Darwin, sia il punto di vista corretto per intendere il rapporto Natura-Uomo e quindi anche l’attuale tragedia del coronavirus o Covid-19.

 

Natura, uomo e Covid-19

Ogni anno milioni di uomini muoiono per infezioni causate da patogeni invisibili come virus, batteri (organismi unicellulari procarioti), protisti o protozoi eucarioti come il Plasmodium della malaria (patogeno trasmesso da uomo a uomo o da scimmia a uomo tramite la puntura delle zanzare del genere Anopheles) e funghi (né piante né animali) ad altri parassiti più o meno complessi. (Si possono trovare in due libri di alta divulgazione scientifica di Carl Zimmer, Paraxite Rex A Planet of Viruses interessanti scoperte sull’argomento). Questi ceppi di organismi esistono da centinaia e centinaia di milioni di anni; molto, molto prima della comparsa per evoluzione naturale dell’uomo

sulla Terra. Anche organismi ben più appariscenti rappresentano notoriamente un pericolo per l’uomo: l’incontro con un orso polare, un leone o uno squalo potrebbe essere per noi letale. Un virus è un organismo primordiale, molto semplice tanto che è composto da una capsula proteica che protegge il DNA, ma spesso solo l’RNA; non ha i tipici organi delle cellule procariote o eucariote.

Per questo motivo molti biologi esitano persino a definirlo un vero essere vivente, poiché con questo condivide essenzialmente solo la caratteristica di avere un codice genetico. Il virus è il parassita per eccellenza dei veri esseri viventi (piante, animali, funghi): non avendo organi propri, come quelli degli eucarioti e procarioti, riproduce il suo codice genetico infettandone le cellule per usare i loro organi, quindi danneggiandole o distruggendole. Per usare un linguaggio teleologico e quindi antropomorfico, ma solo come metafora utile alla comprensione intuitiva del fenomeno, il virus non ha altro “scopo” che perpetuare le molecole del suo codice genetico distruggendo gli organi vitali delle cellule parassitate. È evidente che un Dio creatore onnipotente, buono, saggio e previdente non avrebbe mai potuto permettere la comparsa e l’evoluzione di questi parassiti della vita. E se pur poteva, ma non ha voluto allora … difetta di bontà. Questo è il classico dilemma sollevato da Epicuro (che invero voleva sostenere che gli dèi non si occupano del mondo e degli uomini, essendo anch’essi come gli uomini parte della Natura), rilanciato dal vescovo Lattanzio e ripreso infine, tra gli altri, da Leibniz, la cui logicamente ingegnosa Teodicea fu poi ridicolizzata da Voltaire nel Candido. Di recente un filosofo analitico, Alvin Plantinga, che è in verità un predicatore calvinista travestito da filosofo, ha attribuito il male naturale al peccato originale (la felix culpa di Agostino e Calvino), suscitando non poca meraviglia anche per l’uso disinvolto degli strumenti dell’analisi logica del linguaggio a fini confessionali (un uso che Bertrand Russell o Alfred Ayer non avrebbero mai lontanamente immaginato come possibile). Ma questo ridicolo tentativo rappresenta solo il più recente fallimento della teodicea: il paradiso terrestre abitato da Adamo ed Eva non è mai esistito, se non presso la modesta fantasia degli autori, fin troppo umani, del testo biblico, e i virus esistevano molto prima che gli uomini popolassero la Terra, e già allora parassitavano gli organismi viventi, anche i primati dai quali discendiamo.

Tuttavia, non solo i virus, ma tutti gli organismi dal punto di vista della biologia molecolare non hanno altro “scopo”, sempre per parlare in termini antropomorfici facilmente comprensibili, che quello di perpetuare le molecole del proprio codice genetico. È l’ipotesi, in realtà molto di più che una semplice ipotesi, del “gene egoista” divulgata dal noto libro di Dawkins: gli organismi sono macchine biologiche per la riproduzione delle molecole del DNA, le sole a perpetuarsi nel trapassare incessante degli organismi portatori, compresi virus (che esemplifica nel suo ciclo biologico in modo eccellente questo stato di cose), batteri, amebe, aragoste, leoni ed elefanti. In quanto parte della natura, neppure l’uomo fa eccezione a questa regola. Anche noi per sopravvivere e riprodurre quindi i nostri geni ci alimentiamo di altri organismi, distruggendoli, e non di rado eliminiamo anche i nostri simili.

E cerchiamo di evitare che altri organismi, come virus e leoni, ci ricambino il favore. Perciò la natura è stata vista come un teatro di guerra, che Tennyson descrisse con celebri versi «nature, red in tooth and claw». Questo stato di cose è la pietra tombale per ogni residuo tentativo di teodicea. Ha scritto, per contrasto ai creazionisti, lo storico e filosofo della scienza David Hull che l’evoluzione «abbonda di eventi casuali e contingenti, incredibile spreco, morte, dolore e orrore» per cui l’artefice di Darwin, ovvero la selezione naturale, non è «il Dio misericordioso che ha a cuore le sue creature

[…] Il Dio delle Galápagos è un Dio incurante, indifferente, sprecone, quasi diabolico. Non è certo il tipo di Dio che viene voglia di pregare». Insomma, un Dio che deluderebbe anche Pascal, poiché né affranca né consola. Nondimeno, la natura mostra proprio per questo meravigliosi ed incredibili adattamenti diretti principalmente dalla selezione naturale, che potremmo descrivere con la prosa, non meno poetica, con cui Darwin licenziava il suo capolavoro On the Origin of Species: «There is a grandeur in this view of life, with its several powers having been originally breathed into a few forms or into one; and that, whilst this planet has gone cycling on according to the fixed law of gravity, from so simple a beginning endless forms most beautiful and most wonderful have been, and are being, evolved».

Il problema della teodicea è discusso da Darwin con espressioni largamente citate e di notevole effetto: «What a book a devil’s chaplain might write on the clumsy, wasteful, blundering, low, and horribly cruel works of nature? ». Non manca un classico riferimento al comportamento degli icneumonidi come caso esemplare di crudeltà della natura, che ha destato molto interesse tra i pensatori e gli scienziati dell’Ottocento, incluso Schopenhauer. Questi insetti imenotteri sono noti per il fatto che le femmine depongono le uova nei bruchi ancora vivi delle loro prede che, poi sviluppandosi in larve, divorano lentamente pur mantenendoli in vita fino all’estremo limite possibile.

Scrive Darwin al suo amico botanico e teista della Harvard University, Asa Gray: «I had no intention to write atheistically. But I own that I cannot see as plainly as others do, and I should wish to do, evidence of design and beneficence in all sides of us. There is seems to me too much misery in the world. I cannot persuade myself that a beneficent and omnipotent God would have designedly created the Ichneumonidae with the express intention of their feeding within the living bodies of Caterpillars, or that a cat should play with mice. Not believing this, I see no necessity in the belief that the eye was expressly designed».

Si usa comunemente nelle attuali circostanze parlare di guerra al virus, e lo stesso Darwin usava la metafora struggle for life: sono espressioni certo efficaci, ma ricordiamo che sono impregnate di antropomorfismo. Più semplicemente gli organismi si adattano alle condizioni di vita nella competizione intra ed extra specifica per perpetuare i loro geni. Da questo punto di vista un virus, con tutti i suoi adattamenti (Darwin usava a volte il termine contrivance) non è meno meraviglioso di un’orchidea o di un colibrì, benché facciamo il possibile per la nostra sopravvivenza e vorremmo piuttosto l’estinzione del coronavirus e siamo soggettivamente molto, molto più meravigliati dalle grazie di Nicole Kidman piuttosto che dagli “ingegnosi” espedienti del patogeno per replicare le proprie molecole di acido nucleico. In generale, per sopravvivere cerchiamo di adattarci ai virus e agli altri microbi patogeni partecipando ad una perenne “corsa agli armamenti”, quella mostrata dalla storia naturale tra parassiti e le loro vittime, tra predatori e prede, evolvendo difese immunitarie per

selezione naturale, oppure culturalmente grazie alla scoperta scientifica con l’apparecchiamento di vaccini e antibiotici (anche la scienza dopotutto, come sostenevano i positivisti dell’Ottocento, come Spencer e Mach, è uno strumento di adattamento, benché non sia solo questo).

Alcuni credono che il virus sia una vendetta perpetrata della natura sull’uomo incauto, perturbatore, manipolatore ed egoista. Ma considerare la questione in questi termini è del tutto improprio, come osserva David Quammen, autore di una originale biografia di Darwin ed anche di un ottimo libro divulgativo (Spillover. L’evoluzione delle pandemie) che avvertiva del pericolo dello spillover, cioè della trasmissione di virus dall’animale all’uomo come sembra probabile sia accaduto con il Covi-19. È difficile smentire Quammen. Infatti, ciò implicherebbe pensare la natura in termini

antropomorfici: attribuire ad essa gli stessi caratteri, sentimenti, passioni ed addirittura progetti che usualmente la superstizione religiosa e popolare attribuisce agli dèi dei greci o al dio biblico.

Propriamente parlando, la natura è del tutto indifferente ai comportamenti e alla sorte dell’uomo, tanto che alcuni l’hanno chiamata matrigna (Leopardi ad esempio). Per richiamare Hume, la vita di un’ostrica vale per la natura esattamente quanto quella di un uomo, cioè niente! Ed è proprio paventando questo fatto indiscutibile che gli uomini si sono dati alla superstizione. 

Michel Onfray ha di recente focalizzato la nostra attenzione su una felice intuizione naturalistica e, direi, darwiniana di Nietzsche sui reali rapporti che intercorrono tra gli esseri viventi. Nei Frammenti postumi che dovevano costituire l’incompiuta Volontà di potenza in una lapidaria nota c’è scritto: Sipo matador. È il nome di una pianta delle foreste tropicali, che si arrampica fin sulla chioma degli alberi che parassita in cerca di luce, fino ad ucciderli e quindi a crollare al suolo con essi morendo a sua volta, ma non prima di aver fiorito e quindi prodotto semi. Un breve riferimento di Nietzsche sul comportamento della pianta si trova nel paragrafo 258 di Al di là del bene e del male, ma il senso da trarre dalla botanica nietzschiana si trova nel paragrafo successivo (259) dello stesso libro: qui la natura, che è pensata al di là del bene e del male come già insegnato da Spinoza, è descritta come volontà di potenza (perpetuare la propria vita a danno di altri): «Su questo punto occorre rivolgere radicalmente il pensiero al fondamento e guardarsi da ogni debolezza

sentimentale: la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza […] uno sfruttare […] dovrà essere la volontà di potenza in carne ed ossa, sarà volontà di crescere, di estendersi, di attirare a sé, di acquistare preponderanza – non trovando in una qualche moralità o immoralità il suo punto di partenza, ma per il fatto che esso vive, e perché vita è precisamente volontà di potenza». La volontà di potenza di Nietzsche è, almeno in un suo importante significato, la biologia del gene egoista.

 

Storia naturale e mondo umano

Nel considerare da un punto di vista naturalistico le vicende contingenti della storia umana, è necessario anzitutto prendere le mosse dal principio, che oggi appare scientificamente fondato, che questo mondo propriamente umano è incluso nella storia naturale come parte infinitesima. Eppure, questa prospettiva non è facile da accettare da parte di coloro che seguono credenze religiose e teologiche. Costoro, infatti, ribaltano specularmente la corretta prospettiva naturalistica: la storia naturale appare loro trascurabile e infine insignificante rispetto alla storia umana, poiché quest’ultima è considerata come storia della salvezza, per cui la natura è sono stata creata in vista dell’uomo.

Un’idea così antropocentrica che persino il Leibniz della Teodicea - sia pure dal presupposto metafisico del principio di pienezza - considerava debole e indifendibile. Quasi agli esordi del suo percorso filosofico Nietzsche, in Verità e menzogna in senso extramorale (1873), considerando l’alternativa tra la natura cosmica e la storia umana come storia della salvezza, optò decisamente per la prima in una prospettiva che appare oggi sempre più scientificamente corretta, almeno da quando siamo riusciti a gettare lo sguardo nello spazio immenso e nel tempo profondo del cosmo con i suoi miliardi e miliardi di galassie che includono altrettante stelle con i loro pianeti: «In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire – Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà finito, non sarà avvenuto nulla di notevole […] Se noi riuscissimo a intenderci con la zanzara, apprenderemmo che anch’essa nuota attraverso l’aria con questo pathos e si sente il centro che vola di questo mondo».

Chiunque abbia la pazienza di riconsiderare le origini del pensiero filosofico e quindi riscoprire lo spirito del naturalismo greco senza pregiudizi antropocentrici, comprenderà come non sia possibile confinare il mondo o natura entro la storia umana o mondo umano secondo l’interpretazione della storia universale di una certa filosofia moderna e contemporanea che continua la tradizione teologica giudaico-cristiana. A ragione Karl Löwith ha osservato che alcune tra le più influenti filosofie del nostro tempo appaiono del tutto inadeguate nell’intendere veramente il rapporto natura-uomo: «Lo storicismo metafisico di Hegel, il materialismo storico di Marx e il discorso heideggeriano sul “destino dell’essere” si rivelano egualmente insufficienti per una comprensione del mondo, in quanto muovono tutti dall’uomo e dal suo mondo storico. L’ultimo fondamento storico di tale punto di partenza va ricercato nel fatto che essi rimangono tutti entro la tradizione biblica, secondo la quale il cielo e la terra sono stati creati in funzione dell’uomo». E Löwith ha, infine, posto un problema insolubile per qualsiasi prospettiva idealistica, che è teologia differita tanto da conservarne immutati i pregiudizi antropo-teocentrici: ovvero che la congiunzione tra uomo e mondo «indica un legame essenziale per l’uomo, ma non per il mondo. Il mondo naturale infatti può essere pensato senza un rapporto ad esso necessario con l’esistenza dell’uomo, ma non si può immaginare alcun uomo senza il mondo. Dal primo all’ultimo respiro noi viviamo vincolati al mondo. Noi veniamo al mondo – esso non viene a noi – e lasciamo il mondo, mentre esso continua a sussistere».

Da questo principio naturalistico possiamo derivare un paio di implicazioni, utili per meglio intendere ed analizzare correttamente il rapporto mondo-uomo in relazione al nostro argomento. La prima implicazione è di tipo più che altro gnoseologico, ed è stata anticipata con la consueta chiarezza da Spinoza in relazione alle calamità - nella fattispecie guerre - del suo tempo. In risposta al suo corrispondente Oldenburg, segretario della Royal Society, egli osservava che la vista di «queste masse armate non mi fanno né ridere né piangere, ma piuttosto mi muovono a filosofare e a osservare più attentamente la natura umana. Non mi credo lecito, infatti, di deridere la Natura e meno ancora di deplorarla, se penso che gli uomini, come tutto il resto, non sono che parte della Natura». Dovremmo dunque comprendere razionalmente questo rapporto natura-uomo, superando le passioni e i sentimenti, così come la superstizione e la mera credenza. E questa prospettiva ci apre già alla

comprensione della seconda implicazione: se l’uomo è parte della natura, agirà sempre secondo le determinazioni o leggi della natura, persino nei casi più estremi e apparentemente improbabili. Un altro grande naturalista come Hume ha esposto questo punto di vista con grande acume e forza argomentativa nel suo controverso saggio Sul suicidio. Qui il filosofo mostra come la condanna cristiana del suicidio confligga con i presupposti stessi del deismo, secondo cui Dio governa il mondo per mezzo delle leggi generali che ha creato. Nel dimostrare questa tesi Hume sostiene che «la vita degli uomini è soggetta alle stesse leggi cui è soggetta la vita di tutti gli altri animali; e tutte queste esistenze sono soggette alle leggi generali della materia e del moto». La conseguenza di questa tesi forte del naturalismo, sarà allora che se gli animali «hanno ogni diritto di alterare le operazioni della natura, nella misura in cui possono farlo», scavando tane ad esempio o intrecciando nidi con fili d’erba, anche l’uomo sarà soggetto alla medesima condizione. Infatti, «Non sarebbe un delitto per me deviare il Nilo o il Danubio dal loro corso, se fossi capace di farlo. È dunque un delitto distogliere dai loro canali naturali poche once di sangue?».

Alla luce di queste implicazioni esaminiamo le vicende umane all’interno della natura: tratteggiamo una storia naturale; una breve raccolta analitica di fatti noti sulle pandemie. Come dimostrato dagli studi di genetica molecolare, virus ed altri germi patogeni hanno interagito con le vicende umane fin dal paleolitico, cioè dagli albori dell’umanità ed invero anche da molto prima, da quando cioè i nostri più remoti antenati erano primati non umani. I cosiddetti patogeni del gruppo degli Herpesvirus che infettano i primati hanno seguito in parallelo la speciazione di questi cladi, per cui oggi scimmie antropomorfe e non hanno i loro specifici virus, come quelli che provocano nell’uomo la varicella (Herpesvirus 3), l’herpes simplex, e il citomegalovirus (Herpesvirus 5). Come c’era da aspettarsi in base alle leggi dell’evoluzione biologica si è sviluppata una corsa agli armamenti tra parassiti (virus) e parassitati (primati) con reciproci adattamenti (coevoluzione). L’impatto di questi patogeni sulla vita dei nostri antenati paleolitici cacciatori e raccoglitori dovrebbe essere stato molto limitato, paragonato a quanto poi accaduto più recentemente nel tempo, poiché allora gli uomini vivevano in tribù popolate al massimo di alcune diecine di individui, per di più disperse su ampi spazi all’interno dei quali erano costrette a spostarsi frequentemente per meglio sfruttare le risorse dell’ambiente. Poi il clima e quindi l’habitat mutarono, e non certo a causa dell’uomo: con la fine dell’ultima glaciazione il clima si riscalda notevolmente. Allora alcune tribù di cacciatori inseguirono l’habitat glaciale spostandosi sempre più verso il nord, altre si adattarono a questi grandi cambiamenti imparando ad addomesticare piante ed animali. È la rivoluzione neolitica: gli uomini divennero pastori ed agricoltori, e così stabilirono sempre più strette relazioni con gli animali e nel caso degli agricoltori divennero stanziali, costruendo prima villaggi e poi anche città abitate da migliaia e migliaia di individui. Questa nuova situazione mutò profondamente il rapporto coevolutivo tra i germi patogeni e gli umani: i parassiti si adattarono al nuovo ambiente e divennero più aggressivi favoriti dal notevole incremento demografico delle popolazioni umane e in molti casi, passando dagli animali addomesticati o selvatici agli uomini (spillover), moltiplicarono la loro virulenza grazie anche all’eccessivo affollamento delle loro vittime. Comparvero allora versioni aggiornate di virus come il Morbillovirus, trasmesso probabilmente dai bovini allevati (peste bovina) e passato all’uomo probabilmente in epoca storica (il comune morbillo umano). Un altro gruppo di patogeni detti Orthoposvirsus si sono anch’essi originati quasi certamente per spillover, e infatti attaccano sia i bovini (Vaccina virus) che le scimmie e l’uomo: il famigerato vaiolo umano (Variola virus) ha mietuto milioni e milioni di vittime fin dalla preistoria. Ora, grazie a campagne di vaccinazione di massa effettuate su scala mondiale, sembra che questo virus sia stato portato all’estinzione totale.

Ricordiamo anche vari tipi di virus che infettano le vie respiratore, da quelli responsabili dei comuni raffreddori ed influenze stagionali a quelli che causano sindromi respiratorie acute come la SARS, cioè i coronavirus.

Anche altri tipi microbi patogeni hanno mietuto innumerevoli vittime, come, fra numerosi altri, i batteri del tifo, del colera, della tubercolosi e della peste nera o bubbonica. I popoli delle steppe euroasiatiche, allevatori di animali, già contraevano la peste 5000 anni a.c., come dimostrato di recente da uno studio genetico sui denti trovati nelle tombe di questi uomini, che in alcuni casi contenevano evidenti tracce di DNA di Yersinia pestis, il batterio responsabile della letale malattia.

Questi uomini svilupparono nel tempo una sorta di immunità di gregge, cioè difese immunitarie e, inoltre, poco dopo addomesticarono il cavallo, inventarono la ruota e il carro. I loro insediamenti divennero allora mobili quanto mai prima, e potendo ora spostarsi più facilmente su grandi spazi, ridussero sensibilmente il rischio di contagio. Quando questi popoli nomadi delle steppe vennero a contatto con gli agricoltori insediati stabilmente in Europa centro-occidentale, portarono col loro bestiame il batterio Yersinia pestis, che fece strage presso questi ultimi, poiché privi di adeguate difese immunitarie. Inoltre, gli agricoltori europei abitavano in villaggi più o meno densamente popolati, situazione che favoriva la rapida propagazione del microbo. Il genoma umano degli attuali popoli europei ha registrato le conseguenze di questi eventi drammatici: i geni degli antichi agricoltori che avevano popolato l’Europa con l’espansione dell’agricoltura dal vicino Oriente, e che avevano sostituito in gran parte le popolazioni di cacciatori-raccoglitori paleolitici europei, sono stati a loro volta sostituiti in gran parte dai geni dei popoli delle steppe. E la rivoluzione non fu ovviamente solo genetica, ma anche culturale: un mondo umano era finito, ne era nato un altro.

Da allora, come dimostrato dalla documentazione storica, molte pandemie, e non solo quella della peste nera, hanno preso prevalentemente una direzione Oriente verso Occidente, lungo quella che è stata chiamata e ancora oggi è detta via della seta. Pandemie destinate purtroppo a ripresentarsi con sempre maggiore frequenza in relazione all’intensità degli scambi fra gli uomini. La cosiddetta peste antonina (165-180 d.c.), descritta dal grande medico Galeno e che fu in realtà un’epidemia di vaiolo, attraversò tutto l’Impero romano provenendo da Oriente al tempo dell’imperatore-filosofo Marco Aurelio, spopolando intere città e decimando le legioni romane. La pandemia descritta dallo storico dell’imperatore Giustiniano, Procopio di Cesarea, al tempo della guerra greco-gotica (535-555 d.c.) era invece la peste nera: la popolazione italica, e non solo, subì un grave tracollo demografico. Una più grande strage si deve alla pandemia sempre di peste nera diffusa in Europa dal 1347-48. Recenti studi attribuiscono la diffusione del batterio letale anzitutto ai mutamenti climatici allora in atto (e non causati dall’uomo): era finito il periodo caldo medievale ed era cominciata la piccola era glaciale.

Il clima sempre più freddo ed arido causò la migrazione da Oriente verso Occidente di varie specie di roditori sulla cui pellicce vivevano pulci, le quali erano parassitate da Yersinia pestis. Così favorito dalla migrazione dei roditori ed anche dalle navi infestate dai topi che da Costantinopoli attraversano il Mediterraneo, il batterio giunse in Italia e poi si diffuse rapidamente nel resto d’Europa. Qui trovò una situazione particolarmente favorevole per la sua propagazione: città sovrappopolate e dalle condizioni igieniche piuttosto precarie e un roditore, il ratto nero, che viveva a stretto contatto con l’uomo e le cui pulci quando pungevano trasmettevano il patogeno. Risultato nel giro di pochi anni scomparve almeno 1/3 o forse più della popolazione europea; e la pestilenza rimase endemica per oltre due secoli, quando qua e là ricomparivano nuovi focolai. Anche in questo caso un mondo umano era giunto alla fine: per alcuni storici fu l’autunno del medioevo e l’inizio dell’era moderna.

Con la modernità, poi, gli europei scoprirono rotte oceaniche e nuovi continenti: i commerci internazionali si moltiplicarono a dismisura. Anzi, con la scoperta dell’America e la circunnavigazione dell’Africa si rese possibile raggiungere l’Oriente via mare, prese corpo la prima vera globalizzazione dell’economia. Così, da allora fu possibile per i germi patogeni attraversare gli oceani mediante vettori umani e raggiungere nuovi continenti. I conquistadores spagnoli portarono in America non solo le loro armi da fuoco, le loro piante e i loro animali addomesticati, ma anche i loro patogeni: il vaiolo, il morbilllo e persino la semplice influenza furono letali per milioni e milioni di nativi americani poiché, isolati nel nuovo mondo dal resto della popolazione mondiale da un lasso di tempo considerevole, non avevano da contrapporre a detti patogeni alcuna difesa immunitaria.

Queste malattie importate involontariamente dagli europei furono tra le cause determinanti, forse più della conquista militare e culturale, della fine delle civiltà precolombiane. Era un altro mondo umano che finiva.

Queste sintetica ed essenziale storia naturale illustra i principi naturalistici sopra esposti: che la storia umana è frammento di quella naturale; che gli uomini per sopravvivere e migliorare le loro condizioni di vita si adattano a situazioni nuove ed impreviste; che le conseguenze più o meno remote di tali azioni sono imprevedibili e a volte catastrofiche, ben oltre le migliori intenzioni. La domesticazione delle piante e degli animali, originata come adattamento culturale per far fronte ai cambiamenti climatici dell’Olocene, ebbe grandiose implicazioni per la vita umana, molte non previste né prevedibili. Sorsero le città e si sviluppò il commercio; tale passaggio dell’uomo alla civiltà rese possibile lo sviluppo della politica e delle leggi, della matematica e della filosofia, dall’arte e della poesia, ma c’era nell’attraversare le porte della civiltà un prezzo amaro da pagare, come - tra le altre cose - le pandemie. Ignorando per di più le vere cause di questi fenomeni, gli uomini cadevano vittime dei loro modi di vivere, così come anche delle loro superstizioni e di false credenze, né quindi erano in grado di porvi rimedio. E il loro destino era governato da eventi naturali che non potevano controllare. E se oggi qualcosa è cambiato, crediamo in meglio, lo dobbiamo solo al progresso della conoscenza scientifica: riusciamo a scoprire qualche causa, troviamo qualche rimedio (i vaccini o gli antibiotici, ad esempio). Ma alle vecchie credenze e superstizioni, alle malsane abitudini oggi se ne aggiungono di nuove. Tutto ciò rende piuttosto inverosimile il buon proposito di uscire dall’attuale pandemia migliorati in qualche modo, specie in senso etico-politico.

Infatti, questa storia di sciagure è lungi dall’essere finita. Con la rivoluzione industriale e la continua innovazione tecnologica nei mezzi di trasporto, viaggiare attraverso il globo divenne sempre più facile e veloce. Così anche la globalizzazione dei germi patogeni è divenuta sempre più rapida ed estesa. Oggi la lenta quarantena imposta dal lungo viaggio per terra e mare, è stata sostituita da viaggi rapidissimi tra i continenti: non si fa più tappa a Samarcanda o a Costantinopoli, e in poche ore di volo a bordo di un areoplano si attraversa l’intera via della seta. E con ciò, virus ed altri microbi possono viaggiare sempre più velocemente attraverso tutto il pianeta. Solo negli ultimi cent’anni circa si sono verificate grandi pandemie, nonostante la scoperta di antibiotici e la messa a punto di vaccini in grado di curare patologie un tempo incurabili: la spagnola, l’Ebola, l’HIV, la SARS ed ora, tra molte altre, il COVID-19. E non c’è dubbio che la diffusione su scala planetaria di questi patogeni sia stata resa possibile dall’impetuoso incremento degli scambi. Gli uomini, come le piante e i loro animali addomesticati, sono vettori di virus e batteri che trasportano in tutto il mondo sempre più rapidamente. Più in generale, il traffico internazionale introduce, volontariamente o meno, specie alloctone di piante e animali nelle più remote parti del pianeta, minacciando la biodiversità che si era prodotta nel tempo geologico proprio per parziale o totale isolamento geografico. Come non pensare alle isole Galápagos, la cui straordinaria fauna, resa celebre da Darwin, è oggi seriamente minacciata da specie introdotte dai coloni?

Per ritornare alle pandemie, la febbre spagnola fu causata da un virus dell’influenza di cui non è noto come e perché mai divenne particolarmente aggressivo. Diffusasi verso la fine del primo conflitto mondiale, e alcuni pensano favorita dalle precarie condizioni igienico-nutrizionali conseguenza del conflitto e dalla mobilitazione di milioni di soldati, la spagnola fece almeno 50

milioni di vittime in tutto il mondo, dalla Cina agli Usa, attraversando per l’Europa. L’HIV era in origine un virus che infettava i primati selvatici dell’Africa equatoriale, poi meno di cent’anni fa, in conseguenza dell’uso indigeno di macellare e consumare carne di scimmie il virus è stato tramesso (spillover) all’uomo e da allora si è diffuso in tutto il pianeta con milioni di vittime. Anche la SARS è un tipico caso di spillover: si è originata dalla tradizione da parte delle popolazioni rurali della Cina di macellare e consumare, anche in condizioni igieniche assai precarie, ogni sorta di animale selvatico. Sembrò in un primo momento che la causa della diffusione del virus provenisse dal consumo della carne di un piccolo mammifero selvatico, il musang o civetta delle palme. In seguito, si è poi scoperto che il coronavirus della SARS, denominato SARS-CoV, era stato tramesso all’uomo dal musang, ma tramite i pipistrelli. La stretta somiglianza tra il virus della SARS e quello del

COVID-19, denominato ufficialmente SARS-CoV-2, fa pensare ad una comune origine animale. Si pensa, infatti, che l’attuale pandemia si sarebbe originata in una regione della Cina da un caso di spillover da pipistrelli, virus che avrebbe avuto come primo focolaio il mercato delle carni di Wuhan.

Alcuni sospettano, invece, che il virus sia uscito accidentalmente da un laboratorio sito nella stessa città, dov’erano in corso degli esperimenti per la produzione di vaccini contro la SARS o l’HIV.

Epidemiologi e virologi da tempo prevedevano la possibilità di catastrofiche pandemie; accelerandosi in futuro il ritmo e la vastità degli scambi commerciali il rischio dovrebbe proporzionalmente aumentare.

Se questa storia naturale ci insegna qualcosa, piuttosto che l’auspicato miglioramento etico, è che non siamo noi a vivere su di un “fragile pianeta” che violentiamo, ma che è la nostra vita ad essere fragile su questo pianeta governato dalla natura extramorale del mondo, che è al di là del bene e del male e del tutto insensibile alle sorti dell’umanità. Ricordiamo il ciclo vitale del sipo matador.

 

Il nome di Karl Löwith è spesso associato ai suoi lavori di storia della filosofia e alla sua attività di "scepsi storiografica"  (segue)

Sezioni del sito

O. Franceschelli - Intervista su Karl Löwith

Karl Löwith - Treccani.it

Karl Löwith - New School Philosophy

Karl Löwith, Storia e natura. Scritti su idealismo e sinistra hegeliana, a cura di Flavio Orecchio, Castelvecchi, Roma, 2023.

Karl Löwith, Il cosmo e le sfide della storia, a cura di O. Franceschelli, Donzelli Editore, Roma, 2023.

S. Griffioen, Contesting modernity in the German secularization debat: Karl Löwith, Hans Blumenberg and Carl Schmitt in polemical contexts, Brill, Leiden, 2022.

Donaggio E., Karl Löwith: eine philosophische Biographie, tr. ted. di A. Staude con la collaborazione di M. Rottman, J.B. Metzler, Berlin, 2021.

Seconda edizione

Liebsch B., Verzeitlichte Welt: Zehn Studien zur Aktualität der Philosophie Karl Löwiths, J.B. Metzler, Berlin 2020.

Nuova edizione

Löwith K., Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, a cura di O. Franceschelli, Donzelli, Roma, 2018.

Karl Löwith, Sul senso della storia, a cura di M. Bruni, Mimesis, 2017.

Heidegger M., Löwith K., Carteggio 1919-1973: Martin Heidegger e Karl Löwith, edizione critica di A. Denker, a cura di G. Tidona, ETS, Pisa, 2017.

Fazio G., Il tempo della secolarizzazione. Karl Löwith e la modernità, Mimesis, Milano-Udine, 2015.

A. Tagliapietra, M. Bruni (a cura di), Le Rovine, ossia meditazione sulle rivoluzioni degli imperi, traduzione di M. Bruni, Mimesis, 2016.

Premio Nazionale Filosofia Frascati - 2016

Società Natura Storia. Studi in onore di Lorenzo Calabi, a cura di A. Civello, Edizioni ETS, 2016.

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09.09.2023