Intervista a Gianluigi Pasquale

Nel percorso di "urbanizzazione della provincia löwithiana" incontriamo un teologo, il prof. Gianluigi Pasquale, docente di Teologia Fondamentale nella Pontificia Università Lateranense, autore di numerose pubblicazioni e, in campo "löwithiano", di Oltre la fine della storia. La coscienza cristiana dell'Occidente.

Nota biografica

Gianluigi Pasquale, nato a Vicenza nel 1967, è Professore di Teologia Fondamentale nella Pontificia Università Lateranense, Stato della Città del Vaticano. Ottenuta la Laurea e il Dottorato di Ricerca in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana in Roma (2001), nello stesso anno si sposta a Venezia, laureandosi e ottenendo il Dottorato di Ricerca in Filosofia all’Università degli Studi «Ca’ Foscari» nel 2008. Vari e prolungati sono i periodi di studio e ricerca che trascorre all’estero in diverse università: Oxford (Inghilterra), Chicago e Berckley (USA), Toronto (Canada), Freiburg im Breisgau, Francoforte e Münster in Germania. Qui, soprattutto, viene in contatto, ancora nel 1996, con il Prof. DDr. Ludwig Siep, il quale, piano piano lo introduce all’appassionante lettura dei testi di G.W.F. Hegel in lingua originale e, soprattutto, allo studio pedissequo dei due libri della Wissenschaft der Logik. In Italia entra a far parte, quale membro ordinario, del «Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica» (CISE) all’Università di Venezia (2001), della Scuola di Alta Formazione Filosofica (SdAFF) all’Università di Torino (2003), del Centro Studi e Ricerche all’«Istituto Jacques Maritain» di Portogruaro (VE, 2004) e della Società Italiana di Filosofia Morale (2012).

 

Ha ricoperto, inoltre, incarichi accademici istituzionali: Assistente Scientifico nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana (1999-2001), Preside (2001-2010) e Docente stabile nello Studio Teologico affiliato «Laurentianum» dei Frati Minori Cappuccini in Venezia, e Visiting Professor di Teologia a Berlino, nonché di responsabile nazionale del Servizio Cultura del Frati Minori Cappuccini Italiani (2003-2006), cui appartiene. Attualmente, oltre a insegnare Teologia nella Pontificia Università Lateranense, è Docente della stessa disciplina anche a Milano e, a Venezia, presso lo «Studium Generale Marcianum» e il «Laurentianum». Dirige tre Collane Editoriali, di cui la più rinomata «Filosofi Italiani del Novecento» (FIN), è stata fondata nel 2011 assieme al Prof. Calogero Caltagirone per i tipi della Lateran Univesity Press, Città del Vaticano, e oramai diffusa a livello internazionale. Parla e scrive correntemente in sei lingue straniere.

 

È autore di una ventina di libri, molti dei quali tradotti in differenti lingue straniere, e di oltre un centinaio di articoli pubblicati in Riviste scientifiche nazionali ed estere. Tra queste pubblicazioni vanno menzionate: La teologia della storia della salvezza nel secolo XX, (Nuovi Saggi Teologici. Series Maior 3), pp. 609 [tr. Croata: Teologija povijesti spasenja u XX. Stoljeću, tr. in Croato di Darko Perković, (Volumina Theologica 28), Kršćanska sadašnjost, Zagreb 2011. Pp. 653]; La storia della salvezza. Dio Signore del tempo e della storia, (Diaconia alla verità 11), Edizioni Paoline, Milano 2002, pp. 202 [tr. Inglese: The History of Salvation. For a Word of Salvation in History, tr. di Francesca Ferrando, (Academia Philosophical Studies 33), Academia Verlag, Sankt Augustin 2009, pp. 232]; Oltre la fine della storia. La coscienza cristiana dell’Occidente, (Ricerca, Bruno Mondadori), Milano 2004, pp. 211 [tr. Inglese: Beyond The End of History. The Christian Consciousness in The Western World, tr. di Francesca Ferrando, (Academia Philosophical Studies 47), Academia Verlag, Sankt Augustin 2011, pp. 245]; Jean Daniélou, (Novecento Teologico 25), Morcelliana, Brescia 2011, pp. 153; Amore e verità. Sintesi prospettica di Teologia Fondamentale. Studi in onore di Rino Fisichella, Lateran University Press, Città del Vaticano 2011, pp. 879; La ragione della storia. Per una filosofia della storia come scienza, (Nuova Cultura – Introduzioni 251), Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 278; Ritorno ad Atene. Studi in onore di Umberto Galimberti, (Biblioteca di Testi e Studi. Filosofia 732), Carocci Editore, Roma 2012, pp. 618.

Intervista (27 ottobre 2013)

KARL LÖWITH E LA PARENTESI SPIRITUALE DEL VENTESIMO SECOLO

Marco Bruni: Come è avvenuto il suo incontro con il pensiero di Karl Löwith e quale ruolo ha avuto nella sua formazione filosofica?

 

Gianluigi Pasquale: Il primo incontro con il filosofo bavarese Karl Löwith, di cui quest’anno ricorre il 40° anniversario della morte, avvenne quando nel 1993, allora giovane ventiseienne, all’indomani della laurea in Teologia, mi apprestavo a iniziare l’improbo cammino per il conseguimento del Dottorato di Ricerca in Sacra Teologia nella Pontificia Università Gregoriana in Roma, un percorso che si sarebbe concluso solo otto anni dopo con la cosiddetta «difesa dottorale» (che ancora oggi i Gesuiti denominano, infatti, il «Das Rigorosum») soltanto nel 2001 e la successiva pubblicazione delle ottocento pagine di tesi a libro nel 2002 in Italiano (La teologia della storia della salvezza nel secolo XX) e, a mia insaputa, interamente tradotta nel 2011 in Croato. Fu un Professore Gesuita statunitense Jared Wicks SJ, tuttora vivente nell’Ohio (come egli ama definirsi «Writer-in-residence at the Pontifical College Josephinum, Columbus, Ohio»: J. WICKS, Scripture reading: urged vehementer, in «Theological Studies» 74 (2013) n. 3, p. 555), a farmi, comunque, conoscere Karl Löwith. All’inizio di quell’arduo lavoro di ricerca dottorale egli mi invitò a controllare se corrispondesse al vero l’assunto secondo il quale la concezione della storia löwithiana esibita in Meaning in History – come sappiamo pubblicato innanzitutto in Inglese e solo successivamente riscritto in Tedesco – dipendesse da quella espressa in Christus und die Zeit dal teologo ed esegeta protestante Oscar Cullmann (1902-1999). Evidentemente il suggerimento mi fu dato in ragione del fatto che entrambi, benché ciascuno a proprio titolo, si occuparono di «storia», ciò che per il poeta romantico Georg Philipp Friedrich von Hardenberg, morto non ancora trentenne (1771-1801), e conosciuto sotto le mentite spoglie con lo pseudonimo di «Novalis», suonava piuttosto come un imperativo: «io vi esorto alla storia» (Cristianità o Europa, 1799, p. 21).

Fin dalla prima lettura delle pagine dei due rispettivi Autori compresi quanto il suggerimento non fosse inane perché mi accorsi che la tesi löwithiana circa la secolarizzazione dell’escatologia cristiana, trasformatasi, secondo Löwith, in una filosofia della storia secolarizzata, dipendesse in qualche misura dall’influsso dell’impianto esegetico e teologico delle ricerche condotte da Oscar Cullmann sulla Sacra Scrittura. In altre parole, la tesi di Löwith sembrava, almeno a livello preliminare, porre un grosso punto interrogativo – per me, ora non più tale – sulla possibilità che esista propriamente una filosofia della storia, dal momento che essa dovrebbe essere, per lo meno, soltanto una «teologia della storia» di indole secolarizzata. Successivamente mi accorsi come detta tesi löwithiana fosse ancora più radicale di quanto non apparisse a prima vista, dal momento che il filosofo bavarese si era convinto che l’idea madre operante in sottofondo a qualsiasi filosofia della storia, nata in Occidente, coincidesse con la matrice apocalittica proveniente dall’annuncio del Nuovo Testamento, quella che dichiara essere entrato nella storia con Gesù Cristo un «tempo ultimo», per così dire con la “data di scadenza”. È esattamente da quest’angolo visuale, come ho cercato di dimostrare in più di qualche pubblicazione, che Löwith è certamente il primo debitore degli studi biblici sulla concezione del tempo e della storia del Nuovo Testamento fatti da Cullmann, nonostante il primo fosse ebreo e il secondo cristiano, ovvero non avendo l’Antico Testamento la medesima concezione del tempo importata in Occidente dal cristianesimo.

 

 

M. B.: Nel suo libro Oltre la fine della storia. La coscienza cristiana dell’Occidente (Bruno Mondadori, Milano 2004), lei prende le difese del teorema della secolarizzazione di Löwith contro l’idea di autoaffermazione di Blumenberg, soffermandosi in particolare sul debito löwithiano rispetto al teologo protestante Oscar Cullmann. Cosa può dirci a tal proposito?

 

G. P.: Quel libro, oramai uscito dieci anni or sono, è risultato, tuttavia, una sorpresa anche per me quando nel 2011 la prestigiosa Casa Editrice tedesca Academia Verlag si è presa l’onere di ripubblicarlo tradotto in Inglese (Beyond the End of History. The Christian Consciousness in the Western World, (Academia Philosophical Studies 45), Academia Verlag, Sankt Augustin), chiedendo a me, però, il lavoro di una generale revisione di tutta la letteratura löwithiana uscita nel frattempo e pubblicata, ovviamente, in lingua inglese, lavoro che accettai di fare, accorgendomi – e con sorpresa – che gli studi su Löwith erano nel frattempo aumentati in maniera considerevole, segno incontrovertibile della fecondità del Nostro. E in effetti, ancora nel 2004, sostenevo che l’attualità delle ricerche e degli studi löwithiani, è ancora valida soprattutto se osservata nel suo nascere sorgivo dalla vivace polemica intessuta da Karl Löwith particolarmente con Hans Blumenberg, in merito alla identificazione degli autentici natali della modernità. Pure nell’odierna e più seria letteratura filosofica, infatti, chi correttamente mira a rintracciare l’eziologia dell’evo moderno si trova necessariamente dinnanzi all’aut-aut di dover scegliere o l’interpretazione di Löwith oppure quella dirimpettaia di Blumenberg. Detto in altri termini, la comprensione dell’attuale clima culturale occidentale, se parte dall’assunto löwithiano che esso è nipote di una modernità, figlia, per quanto secolarizzata, di un’ermeneutica cristiana dell’essere e della storia, giunge ineluttabilmente a una certa diagnosi della postmodernità: fosse pure quella che tale clima culturale occidentale dovrà morire, per poter risorgere a nuova, e forse, più autentica vita.

Parimenti, per chi sposa la tesi blumenberghiana che l’evo moderno abbia una sua autoctona legittimità, ossia che i suoi natali non abbiano nulla a che spartire con qualche seppur lieve traccia di parentela cristiana, allora, la postmodernità occidentale risulta non soltanto giovanissima e collocata ai primi inizi delle sue pretese e dei propri effetti di legittimazione, ma risulta altresì difficile pronosticare a quale altra tappa essa potrà condurre. Ne consegue che la scelta dell’una oppure dell’altra opzione pregiudica la stessa comprensione della postmodernità e della stessa tardomodernità (Spätmoderne), e quindi l’ermeneutica del Sitz im Leben che si sta oggi imponendo. Non a caso, proprio chi ha onestamente visualizzato i natali cristiani della filosofia della storia (non della storiografia!) in Occidente, al di là del fatto che tenti di smascherarne i segni della (presunta/sopraggiunta) morte, si richiama più di frequente alla sistematizzazione di Löwith, che a quella di Blumenberg. Naturalmente una visione «sintetica» non è una visione «sostanzialistica» della storia, ossia una visione della continuità storica intesa quale continuità di sostanza immune da ogni mutamento storico. Blumenberg ha contestato la tesi della continuità tra cristianesimo e mondo moderno, alla quale si legherebbe l’uso dell’idea di secolarizzazione applicata a una filosofia della storia, perché l’idea corrente – quella soprattutto löwithiana – di una secolarizzazione implicherebbe il «modello di espropriazione» e, quindi, l’impossibilità di una legittimazione dell’epoca moderna.

La secolarizzazione, nel suo originario senso giuridico, rinvia all’espropriazione illegittima di un bene posseduto a giusto titolo dal possessore originario, ma in questa accezione – che è tutta di sapore blumenberghiano (K. LÖWITH, Recensione del libro di Hans Bluulmenberg «Die Legitimität der Neuzeit»,«Aut-Aut. Nuova Serie» n. 222 (1987) pp. 60-66, qui p. 66) – essa appare come un «ultimo theologumenon» che vuol far provare agli eredi della teologia la coscienza colpevole per essere entrati in possesso della sua eredità. Ovviamente la difesa accanita di un inizio radicalmente nuovo e discontinuo dell’evo moderno, perseguita da Blumenberg, si lega a una visione irrelata e frammentaria dei fatti storici, come ha osservato Löwith, tale da rendere impossibile qualsiasi schema di filosofia della storia. Lo stesso Hans Georg Gadamer (1900-2002) ha rivendicato, contro la tesi di Blumenberg (H. G. GADAMER, Verità e metodo, tr. di Gianni Vattimo, Bompiani, Milano 1983, pp. 401-403), una legittimafunzione ermeneutica del concetto di secolarizzazione anche e soprattutto per l’età moderna, in quanto esso apporta all’autocomprensione di ciò che è divenuto e di ciò che è presente, tutta una dimensione di senso nascosto, e in tal modo mostra che il presente è e significa molto di più di quanto sappia di se stesso.

Il «debito löwithiano» rispetto al teologo protestante Oscar Cullmann è quello, pertanto, che viene messo in capo al travagliato concetto di «secolarizzazione». Nel momento in cui il riflettere filosofico si pone dinnanzi alla storia l’apertura a una concezione soprannaturale della stessa diventa per esso un punto di riferimento imprescindibile. Da quest’angolo visuale ha ragione, allora, Löwith nel ritenere che i «profeti giudei erano i radicali filosofi della storia» (K. LÖWITH, Significato e fine della storia, p. 222), perché fondavano la loro fede nelle intenzioni provvidenziali di Dio riguardo al suo popolo eletto e perché assegnavano alla storia l’importanza di essere l’ambito nel quale Dio si rivela e dà forma, appunto storica, alla salvezza. Se, dunque, è vera questa tesi di Löwith, la quale attribuisce alla rivelazione ebraico-cristiana la possibilità di un pensiero autenticamente storico, deve, però, essere anche rilevato che essa è stata talvolta levigata a una lettura alquanto superficiale. Se vedo giusto, chi legge in Löwith soltanto la tesi della secolarizzazione della teologia della storia in filosofia della storia, oppure chi lo studia solamente all’interno della polemica con Blumenberg, non si accorge di quanto Löwith dipenda, invece, soprattutto dall’assoluta novità contenuta nel Nuovo Testamento, più che nell’Antico. In riferimento all’uomo che crede in Cristo, egli stesso, infatti, afferma che «il creatore del cielo e della terra non basta per questo essere del futuro [che è l’uomo]. Egli deve cercare “un nuovo cielo e una nuova terra”» (K. LÖWITH, Significato e fine della storia, p. 38). Löwith rimanda, così, alla sua dichiarata dipendenza dal testo che rese famoso Cullmann e che, non a caso, portava il titolo di Christus und die Zeit. Mi sono, anzi, convinto che Löwith attribuisca rispettivamente alla tradizione giudaica l’idea di un Dio Signore della storia, visto che «la fede nella propria eternità è, per l’ebreo, identica alla fede nel suo Dio» (K. LÖWITH, M. Heidegger e F. Rosenzweig. Poscritto a «Essere e tempo», «Aut-Aut. Nuova Serie» n. 222 (1987)pp. 76-102, qui p. 93), e alla fede cristiana il merito di aver definitivamente consegnato alla visione occidentale della storia l’idea madre che la anima, ossia l’apocalittica (K. LÖWITH, M. Heidegger e F. Rosenzweig, pp. 94-95). Ma, come si è detto, questa idea madre proviene dalla lettura löwithiana di quel testo di Cullmann oggetto del mio libro Mondadori.

 

 

M. B.: Perché sostiene che oggi sia fondamentale la scelta tra Löwith e Blumenberg, non solo per la comprensione della modernità, ma anche e soprattutto per la comprensione del suo esito futuro? E in questo senso che cosa si intende per “oltre la fine della storia”?

 

G. P.: La scelta tra Löwith e Blumenberg ritengo sia oggi non soltanto fondamentale, ma anche «fatale» perché mai come oggi l’uomo e la donna si stanno chiedendo dove stiamo andando a finire. Ovvero, l’uomo oggi ha piuttosto l’impressione che si stia «tornando indietro», impressione che io rubrico – per il momento – con l’espressione «tardomodernità» (Spätmoderne) non irrelata dalla postmodenità. Ora l’alternativa tra i due contendenti apre, se vedo giusto, due sole possibilità alla correlata interpretazione della postmodenità. Seguendo Löwith, l’uscita dalla modernità verso la postmodernità sembrerebbe poter avvenire mediante il recupero di una condizione precedente la secolarizzazione; condizione che possa riqualificare l’idea madre che sta alla base della filosofia della storia: ossia l’apocalittica attualmente agente nella sua determinazione escatologica. Percorrere, invece, il sentiero iniziato da Blumenberg apparirebbe oltremodo più ingenuo, perché implicherebbe un’eccessiva confidenza nella possibilità che la storia sia autonomamente capace di novità radicali, e un’enfatica accentuazione della pretesa libertà assoluta dell’uomo: dogmi fossilizzati all’interno dell’epoca di cui vorrebbero spiegare l’origine, e che non risultano certo ovvi nel momento in cui la modernità appare a molti una fase conclusa.

È, invece, interessante notare qui che la prospettiva di Löwith assegna correttamente i natali alla modernità, collocandoli entro la novità portata dal cristianesimo circa la comprensibilità della storia. Ed è in questa novità che risiede l’autentica legittimità della modernità: legittimità appunto indisgiungibile dalla dipendenza dal cristianesimo. A ragione, allora, Löwith arguisce che la cartina al tornasole della mentalità occidentale è la «secolarizzazione», che non è il «secolarismo». Il fenomeno della secolarizzazione ha paradossalmente fatto compiere un salto epocale all’Occidente, divinizzando il principio antropologico della storia e finendo così, a seconda dei casi, per sostanzializzarlo, personalizzarlo o volontarizzarlo. A ben vedere, la secolarizzazione finisce per conservare a suo modo una consapevolezza tipicamente cristiana: quella che la storia non è solo fatta dall’iniziativa individuale e collettiva dell’uomo, ma anche da fattori che l’uomo scopre e riconosce come a lui offerti da una più originaria iniziativa. Salvo che essa identifica il protagonista di tale iniziativa, in chiave non più cristiana. La secolarizzazione, insomma, non è per l’Europa l’abbandono della tradizione ebraico-cristiana, né il distacco radicale da questa, poiché ciò implicherebbe la possibilità «ingenua» di un inizio totalmente nuovo, del tipo di quello presupposto da Blumenberg. La secolarizzazione, piuttosto, è il paradossale risultato storico di quel processo plurimillenario cui diede i natali il cristianesimo quando esso si inalveò nella cultura greco-romana. Allora il cristianesimo cominciò, mediante un processo kenotico, a secolarizzarsi nell’accezione incarnazionistica del termine, utilizzando categorie del mondo greco antico, per rendersi comprensibile. Dopo gli effetti dello storicismo e del nichilismo, il processo di secolarizzazione sembra non arrestarsi e forse sta raggiungendo le sue estreme conseguenze. Ma saranno, verosimilmente, queste estreme conseguenze a rendere possibile al cristianesimo di riproporsi nella più primigenia genuinità. Con questa ipotesi non intendo sposare l’assunto di Max Weber secondo cui la razionalità scientifica, economica e perfino tecnologica si compirà soltanto in Occidente perché proprio lì agisce la tradizione ebraico-cristiana (M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Ed. Leonardo, Roma 1945, pp. 126-134); piuttosto intendo prospettare – e discutere – l’ipotesi per cui la secolarizzazione restituirà l’Occidente alla sua vocazione di essere un Occidente cristiano per il mondo intero. Ma per rispettare questa vocazione sarà necessario ripartire da una visione del mondo e della storia – quindi da una filosofia della storia – aperta alla proposta della rivelazione cristiana. Questo io intendo esattamente per «oltre la fine della storia»: se anche il processo di secolarizzazione raggiungerà le sue estreme conseguenze, non per questo – anzi, forse proprio per questo – quando si riflette sulla storia non si può più pregiudizialmente escludere che il suo attore principale sia il Dio rivelato nell’uomo Gesù Cristo, non fosse altro per il fatto che lì Dio si rivela Signore della storia, proprio nella misura in cui rende l’uomo consapevole di essere protagonista della medesima. Ed è in questa luce, che non si devono temere i risvolti annessi all’affermazione che solo la secolarizzazione del cristianesimo lo restituirà all’Occidente nella sua primitiva e autentica originalità, appunto in un «oltre» che noi adesso non abbiamo (ancora) in mano.

 

 

M. B.: A partire dalla tesi secondo la quale Löwith più che aver confutato la filosofia della storia ne abbia colto soprattutto la genesi nell’escatologia e nell’apocalittica giudiaico-cristiana, in La ragione della storia. Per una filosofia della storia come scienza (Bollati Boringhieri, Torino 2011) lei ci si cimenta in un grande tentativo di rifondazione del “senso” della storia. Può parlarcene?

 

G. P.: Sì, effettivamente si è trattato di un «grande tentativo» perché scrissi quest’altro libro soltanto tre anni dopo il mio secondo Dottorato di Ricerca in Filosofia, nel frattempo acquisito presso l’Università degli Studi «Ca’ Foscari» in Venezia e proprio perché desideravo ripristinare, per aliam viam, la possibilità di una filosofia della storia come scienza, messa in dubbio – come accennato – dallo stesso Löwith. Tentativo che sembra non essere sfuggito nemmeno ai lettori d’oltreoceano: EMANUELE COLOMBO e ROCCO SACCONAGHI, La ragione della storia in «Theological Studies» 74 (2013) n. 2, pp. 488-490. Mi accorsi, infatti, che, una volta superato lo scoglio che parlare di pensiero löwithiano costituisse un atto ermeneutico di estrema audacia (dovuto anche alla delicata questione del rapporto con Heidegger), l’intero Denkweg löwithiano potesse apparire chiaramente leggibile come analisi del rapporto uomo-mondo, scandita dall’evolversi concettuale della polarità «mondo». Sapevo che nello scritto di abilitazione (1928), esso è inteso esclusivamente quale Mitwelt. Ma sapevo anche che negli anni successivi, riconosciuta l’insufficienza di un simile orizzonte, Löwith si fosse rivolto, piuttosto, al mondo storico-sociale, soprattutto in quella sua fase (la Vollendung hegeliana) che rappresenta la fine e il compimento della bimillenaria «parentesi cristiana», ma anche la preistoria spirituale del ventesimo secolo (Von Hegel zu Nietzsche). Il passo successivo che mi sembrava, pertanto, di dover compiere era proprio quello di rileggere completamente Löwith attraverso la lente d’ingrandimento proprio di quest’ultima opera: Von Hegel zu Nietzsche, giungendo a queste tre prospettive che, senza tema di smentita, ho intravisto in questo «secondo Löwith». La prima prospettiva registra che la filosofia della storia non soltanto esiste, ma è anche assolutamente necessaria; e fecondo è il suo rapporto con la teologia della storia, alla quale continuamente rinvia, perché la teologia della storia realizza la riflessione scientifica sulla storia interpretata nella fede. D’altra parte, la relazione della teologia della storia con la filosofia e con la scienza storica è ineludibile per più motivi. In primo luogo, l’esperienza religiosa della storia pretende di essere universalmente riconoscibile come vera e valida, ma questa pretesa deve dimostrare la sua attendibilità e quindi essere fondata. Secondariamente, poiché la fede inerisce alla storia, cosicché non vi può essere una storia sacra che sia separata da una profana, il suo contenuto deve poter comunicare con la consapevolezza che, di volta in volta, l’uomo ha di «storia» e, cioè, deve potersi mostrare ragionevole e significativo. Ne consegue che la teologia della storia deve ineluttabilmente riferirsi a quelle scienze che fanno della storia il loro oggetto. Dalla comprensione che la teologia della storia è legata inseparabilmente al discorso interdisciplinare sulla storia, derivano, inoltre, alcune conseguenze. Innanzitutto, la consapevolezza che l’elaborazione concettuale di una teoria della storia a livello teologico, deve ricorrere all’ausilio della filosofia della storia, ma anche alla scienza storica, secondo il modello di scientificità da essa storicamente raggiunto. Inoltre, la consapevolezza che, se la teologia della storia desidera affrontare seriamente il discorso storico, deve saper inglobare i criteri scientifici di indagine, come l’osservazione empirica degli accadimenti storici, la ricerca delle cause che li hanno posti in essere e lo studio della storia dei loro effetti nel mondo (Wirkungsgeschichte).

La seconda prospettiva cui mi ha condotto il «secondo Löwith» inerisce il rapporto tra filosofia e teologia della storia, dove sembra esservi uno sguardo interale e comune nei confronti della «ragione storica» in quanto tale. La ragione storica, infatti, se anche vorrebbe talvolta sindacare la dimostrabilità dell’agire di Dio nel tempo, non esclude la pensabilità di tale agire tra i fatti e gli eventi del mondo storico. Dunque, al fine di sostenere l’affermazione cristiana che Dio si è rivelato nella storia, è essenziale che l’assunto di quella pensabilità rientri all’interno di un discorso transdisciplinare delle scienze per il tramite dell’argomentazione filosofica, che sola può dimostrare che quella pensabilità è veramente tale e non annida in sé un assurdo. La terza prospettiva, infine, rileva una duplice indeducibilità: quella della contingenza della storia come storia di libertà, e quella della rivelazione divina, che è sempre gratuita. Ovvero: la dignità della fatticità storica costruita dall’homo faber non può non essere conservata nella sua contingenza, così come il fatto della rivelazione soprannaturale non può essere destituito della inaspettatezza che gli è propria. Appare chiaro allora che, sia la dignità della contingenza storica sia la gratuità della rivelazione presuppongono – per essere salvaguardate nel loro senso appropriato – il riconoscimento della libertà fondamentale in cui esse accadono, libertà che sta a fondamento della loro stessa indeducibilità. Se, poi, si accetta la tesi che proprio l’idea di libertà è fuoriuscita dall’impatto che il cristianesimo ha avuto con la storia (G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito, p. 351), si riaffaccia all’orizzonte la principale intuizione che – a mio parere – lega la bibliografia di Löwith alla sua biografia. Ossia: che quando si riflette sulla storia non si può più pregiudizialmente escludere che il suo attore principale sia il Dio rivelato nell’uomo Gesù Cristo, come già accennato.

 

 

M. B.: Lei, inoltre, forse proprio a partire dalla vicinanza filosofica di Karl Löwith e Umberto Galimberti, ha curato in onore del filosofo di Monza Ritorno ad Atene. Studi in onore di Umberto Galimberti (Carocci, Roma 2012). Secondo lei si può dire che Löwith sia tra le fonti principali dell’etica del finito nel neopaganesimo che Galimberti (insieme a Salvatore Natoli) va sostenendo ormai da anni?

 

G. P.: Sono giunto al termine della curatela per la Miscellanea di Studi in onore di Umberto Galimberti dopo quattro lunghi anni di lavoro, in concomitanza con un’altra terminata, sempre sotto la mia ciencuratela, l’anno prima in onore del mio primo Maestro che è stato il Prof. Rino Fisichella (Amore e Verità. Sintesi prospettica di Teologia Fondamentale, Lateran University Press, Città del Vaticano 2011), ora Arcivescovo. Non credo mi cimenterò mai più a curare e dirigere in simultanea tomi da quasi mille pagine l’uno, per ottenere l’insieme dei quali il contatto a martello battente con i accademici contributori diventa imprescindibile. Questo per dichiarare quanto io abbia avuto modo di collaborare negli ambienti accademici dell’Università degli Studi di Venezia sia con Umberto Galimberti che con Salvatore Natoli o nel ruolo di loro collega, oppure in occasione di vari Convegni ivi svoltesi. Non mi sentirei, però, di dichiarare che Löwith sia la fonte principale dell’etica del finito nel loro «neopaganesimo», accezione che, comunque, dev’essere utilizzata fino ai limiti del consentito.

Entrambi, tuttavia, si avvicinano al concetto di «secolarizzazione» già osservato in Löwith quando evidenziano come l’«occasus mundi» stia compiendo sforzi ciclopici per autoconservarsi nel presente. Questo fenomeno è già stato intercettato, come rileva anche Umberto Galimberti, da Reinhart Koselleck (1923-2006) quando si è accorto che la società occidentale, sorta sulle polveri di quel cristianesimo che mirava solo alla positività del futuro come progresso (R. KOSELLECK, Critica illuminista e crisi della società borghese, (Saggi 163), Il Mulino, Bologna 1994, pp. 13-14), nata, dunque, per non durare e per presto svanire, si è, nel tempo, mutata in organizzazione dell’attesa, fino ad affezionarsi a se stessa. In quanto organizzazione, nota Galimberti rileggendo Koselleck, essa non ha nessuna intenzione di cessare, anzi tende a durare illimitatamente. Sulla veridicità di questa eventuale ipotesi, colui o colei che vive in Occidente e che continua a guardare sempre più al domani «capitalizzandolo» sul presente, non può certo glissare. Per chi crede, poi, la domanda potrebbe addirittura suonare così: «opero a favore del Regno di Dio conscio della sua fine, oppure per organizzarlo con l’intento del mio permanere il più a lungo possibile nella comunità che lo confessa?». Al di là della provocazione di Koselleck il fenomeno che vorrei, qui, per un attimo congelare nella sua diagnosi è ben più insidioso e non è, certo, semplicemente rubricabile come un’opera di maquillage filosofico. La Chiesa, fin dalle sue origini, pulsava escatologicamente: aveva sempre coscientemente presente la reale possibilità della propria fine, attendendo, quindi, di poter ricevere la salvezza direttamente da Dio come forma della «vita venturi saeculi». Poi, è successo che l’éschaton continuamente differito – ci troviamo per il momento ancora in questa fase, nulla è cambiato – l’ha persuasa a dover amministrare la salvezza attuando tutte quelle virtualità al fine di poter durare il più a lungo possibile e, quindi, di trasmettere questa salvezza, fino a dichiarare che «Extra Ecclesiam nulla salus». Come non bastasse, oggi essendo la téchne, la scienza riproducente se stessa, a darci la salvezza, talvolta con estrema certezza fino a prolungare all’inverosimile gli anni della nostra stessa vita, è stato tolto alla Chiesa proprio quell’ultimo brevetto di salvezza che le era rimasto.

Qui Umberto Galimberti e Salvatore Natoli hanno colto proprio nel segno. Purtroppo con un esito quasi nefasto, esprimibile in quel modo: se non c’è più nulla da attendere, nessuna fine del mondo e meno che mai un mondo liberato definitivamente dal dolore e dalla morte, allora sorge spontanea la domanda se il cristianesimo sia ancora plausibile. In realtà, nella storia il dilagare del male ha favorito spesso dinamiche catastrofiche, fino al punto da elaborare – visto che questo mondo non giungeva al tramonto – un dietro-mondo opposto a questo e contro questo. L’éschaton, continuamente differito, ha, insomma, indotto alcuni a dubitare perfino dell’esistenza di Dio, altri addirittura a non pensarci più. La civiltà occidentale ha conosciuto molte esperienze caratterizzate dalla delusione dell’éschaton. Questa delusione, per un lato ha vanificato l’attesa, per l’altro ha posto le condizioni perché si formasse e si sviluppasse una sorta di éschaton profano, che noi qui abbiamo già designato quale spiritualizzazione dell’éschaton stesso, una profanazione, per così dire, di primo livello. Questa diagnosi, agli ideologi fautori della cosiddetta «nuova secolarizzazione» può dire – ne sono certo – ancora troppo poco. Essi, indipendentemente dall’approccio credente alla questione o meno, scorgono il futuro del cristianesimo nella radicalizzazione degli effetti dell’incarnazione. L’accento non andrebbe posto, dunque, né sulla risurrezione, né sulla vita eterna, ma, innanzitutto, sull’«etiam pro nobis», la carità, la donazione, la carità come donazione. Essi sembrano parafrasare Aristotele, quando nella sua Etica Nicomachea lo Stagirita afferma che gli amici tra di loro non hanno bisogno di giustizia: sono, piuttosto, i giusti che hanno bisogno di amicizia. E questo perché la sovrabbondanza del dono esclude la relazione proporzionata di giustizia. Insomma, basterebbe una «vita buona» per essere felici, come purtroppo incappano sovente ad affermare anche alcuni ecclesiastici nel nostro continente europeo. Ma, lo sappiamo bene, non è così. Per sbriciolare teoreticamente la questione, bisogna, infatti, mettere in campo il secondo elemento radicalmente nuovo – benché anticipato – dello scenario che ho prima tentato di pennellare: si tratta della temperie da tardo modernità (Spätmoderne), la quale ha generato una sorta di profanazione dell’éschaton cristiano, per noi da considerarsi di secondo livello (Cf S. NATOLI, Il crollo del mondo. Apocalisse ed escatologia, (Il Pellicano Rosso. Nuova Serie 94), Morcelliana. Brescia 2009, pp. 52-55). Da questa esatta prospettiva anche se non esiste dipendenza diretta – almeno da quanto io ho potuto appurare – tra Karl Löwith, Umberto Galimberti e Salvatore Natoli, le idee di questi ultimi due sono molto adiacenti a ciò che prima ho designato quale «secondo Löwith».

 

 

M.B.: A partire da quanto detto fin qui, come riassumerebbe l’attualità del pensiero di Karl Löwith?

 

G. P.: Vorrei riassumerlo con una sua convinzione che, a mio modo di vedere, costituisce il DNA epigenetico del pensiero löwithiano: «Il mondo storico in cui si è potuto formare il “pregiudizio” che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la “dignità” e il “destino” di essere uomo, non è originariamente il mondo, oggi in riflusso, della semplice umanità, avente le sue origini nell’“uomo universale” e anche “terribile” del Rinascimento, ma il mondo del cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo. L’immagine che sola fa dell’homo del mondo europeo un uomo è sostanzialmente determinata dall’idea che il cristiano ha di sé, quale immagine di Dio. L’affermazione che “noi tutti” siamo uomini è determinata quindi dall’umanità prodotta dal cristianesimo, in unione con lo storicismo. Questo riferimento storico alla semplice realtà umana risulta indirettamente chiaro, per il fatto che soltanto con l’affievolirsi del cristianesimo è diventata problematica anche l’umanità» (K. LÖWITH, (Von Hegel zu Nietzsche, p. 148). Detto in altri termini, l’uomo che storico è, se è storico, secondo Löwith non guarda al passato, ma è sempre proteso verso il futuro e, per questo, sollevato dal grigiore della storia per quel tanto che gli basta nel restare pure in essa senza, però, restarne ferito. Rimanendo, insomma, uomo.

Il nome di Karl Löwith è spesso associato ai suoi lavori di storia della filosofia e alla sua attività di "scepsi storiografica"  (segue)

Sezioni del sito

O. Franceschelli - Intervista su Karl Löwith

Karl Löwith - Treccani.it

Karl Löwith - New School Philosophy

Karl Löwith, Storia e natura. Scritti su idealismo e sinistra hegeliana, a cura di Flavio Orecchio, Castelvecchi, Roma, 2023.

Karl Löwith, Il cosmo e le sfide della storia, a cura di O. Franceschelli, Donzelli Editore, Roma, 2023.

S. Griffioen, Contesting modernity in the German secularization debat: Karl Löwith, Hans Blumenberg and Carl Schmitt in polemical contexts, Brill, Leiden, 2022.

Donaggio E., Karl Löwith: eine philosophische Biographie, tr. ted. di A. Staude con la collaborazione di M. Rottman, J.B. Metzler, Berlin, 2021.

Seconda edizione

Liebsch B., Verzeitlichte Welt: Zehn Studien zur Aktualität der Philosophie Karl Löwiths, J.B. Metzler, Berlin 2020.

Nuova edizione

Löwith K., Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, a cura di O. Franceschelli, Donzelli, Roma, 2018.

Karl Löwith, Sul senso della storia, a cura di M. Bruni, Mimesis, 2017.

Heidegger M., Löwith K., Carteggio 1919-1973: Martin Heidegger e Karl Löwith, edizione critica di A. Denker, a cura di G. Tidona, ETS, Pisa, 2017.

Fazio G., Il tempo della secolarizzazione. Karl Löwith e la modernità, Mimesis, Milano-Udine, 2015.

A. Tagliapietra, M. Bruni (a cura di), Le Rovine, ossia meditazione sulle rivoluzioni degli imperi, traduzione di M. Bruni, Mimesis, 2016.

Premio Nazionale Filosofia Frascati - 2016

Società Natura Storia. Studi in onore di Lorenzo Calabi, a cura di A. Civello, Edizioni ETS, 2016.

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