Commenti al "flashmob filosofico" del professor

Orlando Franceschelli

1. Marco Bruni / 2. Marcio Gimenes de Paula / 3. Antonio Cafarelli / 4. Augusto Cavadi / 5. Corrado Ocone / 6. Edoardo La Ragione / 7. Michele Ricciotti /

8. Luigi Sala / 9. Angelo Fadda / 10. Carloalberto Brunori / 11. Giuseppe Cappello

- Blog Centro Filosofia italiana / 

 

 

1. Marco Bruni

 

Le righe che seguono vogliono essere innanzitutto un ringraziamento al professor Orlando Franceschelli, che con grande gentilezza ci ha tenuto a pubblicare tramite il  sito dedicato a Karl Löwith (karllowith.jimdofree.com) la sua proposta così attuale «Virus, madre natura e stoltezza umana: che significa vincere la guerra contro l’attuale pandemia? Per un flashmob filosofico» (16 marzo 2020). Lo ringrazio per aver preferito questa piattaforma ad altre di sicuro più note e più accreditate. Come appena è il caso di dire mi sento di condividere e sottoscrivere in pieno i contenuti e l’opportunità di una simile proposta. 

Nonostante riserve personali relative all’opportunità o meno di gettarsi nella mischia mediatica del web, il sito che curo è nato per un motivo fondamentale: l’importanza della filosofia di Löwith e la presenza che essa ha avuto ed ha tra gli studiosi italiani. Inoltre, mi sentirei di ricordare la particolare relazione che Löwith ha sempre avuto con il nostro paese dove, come lui stesso ha tenuto a scrivere, «si sentiva a casa»

Tra le prime attività che mi è sembrato opportuno svolgere nel sito rientrano le interviste ai più importanti studiosi italiani del pensiero löwithiano. E la prima di queste interviste mi era parso doveroso chiederla al professor Franceschelli, al quale si deve la cura di una delle opere più significative del Löwith maturo (Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, Donzelli, Roma 2000, 2018) e la più esaustiva monografia sull’attualità della lezione löwithiana (Karl Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla, Donzelli, Roma 2000, 2008).  

L’intento di queste interviste era valorizzare, oltre alla “pars destruens” della filosofia di Löwith (ossia la critica della filosofia della storia e dello storicismo, “pars” peraltro ben conosciuta nel panorama filosofico italiano e internazionale), anche e soprattutto la “pars construens” della sua filosofia, ovvero quel «naturalismo piuttosto evidente» che invece è perlopiù trascurato dal mondo accademico e non. Secondo questo naturalismo filosofico löwithiano il «riferimento alla natura naturans» è la semplice conseguenza che anche noi esseri umani ci dobbiamo concepire come un prodotto del mondo qualora non crediamo più di essere il frutto di una creazione divina: «Siamo esseri naturali – conclude infatti Löwith –  nonostante logos, lingua, riflessione e trascendenza perché la natura ha in se stessa un logos che non è mai identico con autocoscienza» (Anhang, in Sämtliche Schriften, vol. IX, p. 409).  

Questo «naturalismo piuttosto evidente» di Löwith si dimostra essere tanto più attuale quanto più pressanti diventano le «urgenze della storia» con le quali anche il corona virus e l’attuale pandemia ci obbligano inevitabilmente a fare i conti. «Urgenze della storia»: anche Franceschelli, infatti, in questo suo primo contributo ai nostri “flashmob filosofici”, cita questo pensiero con cui Löwith invitava a non chiudere gli occhi di fronte ai cambiamenti epocali del nostro mondo. A non rifugiarsi cioè in qualche torre d’avorio, maturando piuttosto la piena consapevolezza che «finché non coopereremo a una revisione radicale del nostro rapporto totale col mondo che non è soltanto per noi […], non si scorge come si possa mutare qualcosa nel dilemma del progresso», ossia delle sue conseguenze e delle crisi a cui ci espone. Sino ad arrivare, concludeva infatti Löwith, come sta appunto avvenendo sotto i nostri occhi, a vivere «in un miscuglio di meraviglia per i progressi tecnici, e di paura di fronte alle loro conseguenze» (La fatalità del progresso, in Storia e fede, Laterza, Roma-Bari, 2000 pp. 168-169).  

È per queste ragioni allora che mi è parso opportuno dedicare, sempre nel sito da me curato, una pagina al «principio natura», rifacendomi ad una espressione utilizzata da Franceschelli in un suo importante volume (Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza della filosofia, Donzelli, Roma 2014). Lo scopo di questa pagina del sito è di sollecitare la riflessione non solo sul tema della «natura» e dell’«antropologia dell’eco-appartenenza», ma anche sulla consapevolezza, come scrive Franceschelli in questo contributo, che sarà difficile lottare contro i virus e le altre questioni di portata ecologica che ci stanno investendo se non combattiamo «anche contro le concezioni e i comportamenti di noi “sapiens” che la terra la stiamo trasformando da ambiente-dimora in ambiente-incubo per un numero sempre crescente di esseri viventi»

È in questa sfida culturale, dai risvolti anche etico-politici, economici ed ecologici, che l’attualità del naturalismo filosofico di Löwith può essere una risorsa che sarebbe opportuno finalmente prendere nella dovuta considerazione. E a questo spero che possano contribuire anche i nostri “flashmob filosofici”.

2. Marcio Gimenes de Paula

La traduzione portoghese del “flashmob filosofico” del professor Orlando Franceschelli a cura del professor Marcio Gimenes de Paula della Società Brasiliana di Filosofia (ANPOF).  link | link | 

UnBNotícias – Universidade de Brasilia
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3. Antonio Cafarelli

 

Carissimo Orlando,

 

ho ascoltato attentamente la tua intervista. Quello che dici sul raffronto tra i parassiti della sofferenza e il mettersi insieme per migliorarsi di quei cittadini-filosofi di una filosofia che non ammette leader mi richiama alla mente La Ginestra leopardiana. Il momento attuale in cui l’epidemia di corona-virus si espande e minaccia seriamente di decimare il mondo mette pesantemente in crisi quanti confidavano nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità e risveglia una resilienza filosofica realistica animata da una nuova consapevolezza di due verità semplicissime ma oscurate dai facili trionfalismi: innanzitutto la continuità-contiguità della scienza e della filosofia e poi il senso della morte come elemento essenziale del rapporto con la natura. Il vero rischio della filosofia è nel dogmatismo invisibile, nella apparente ovvietà di concetti che si danno per scontati, nella fuga rassicurante dallo stato di incertezza e di precarietà che caratterizza la dimensione umana. Recuperare la continuità-contiguità tra scienza e filosofia favorisce il processo di semplificazione, di eliminazione di sovrastrutture mentali e culturali che condizionano la riflessione filosofica e la allontanano dalla semplicità e dalla immediatezza che dovrebbero caratterizzarla. L’idea della morte, oggi, in questo stato di pandemia in espansione, si impone alla vista di chiunque e ci chiama a riflettere sul fatto che la morte è un elemento essenziale della realtà naturale, è una condizione necessaria dell’evoluzione, è un fenomeno naturale, e ci ricorda che non siamo i padroni della natura ma solo i suoi custodi temporanei. L’idea della morte come fatto naturale richiama alla mente l’idea di famiglia. Muoiono i singoli componenti della famiglia ma la famiglia continua la sua strada e quanti non ci sono più lasciano a quanti vengono dopo di loro l’eredità del frutto del loro lavoro, lasciano una casa, un pezzo di terra, un’attività avviata. Una logica del tutto analoga dovrebbe valere per l’umanità considerata una grande famiglia il cui patrimonio si trasmette e si arricchisce di generazione in generazione, un patrimonio innanzitutto di conoscenze scientifiche. Mi permetto di ricordare a questo proposito uno scienziato come Albert Bruce Sabin, lo scopritore del vaccino antipolio: «Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo». A quanti gli chiedevano il perché del suo gesto rispondeva: «Mi è parso che uno specialista in virus come sono finito per diventare, abbia il dovere di usare le sue conoscenze per far del bene all'umanità». L’idea della morte come evento naturale non implica affatto che essa sia in ogni caso un evento naturale, ma porta a riflettere sul fatto che la morte e la sofferenza possono essere provocate da comportamenti irresponsabili sia a livello individuale che sociale. La riduzione di questi comportamenti spesso consapevoli, e ciò non ostante comunque attuati per scopi immediati ed effimeri, richiede la maturazione di una consapevolezza critica da parte di larghi strati della popolazione, in grado di influenzare i decisori politici, e qui torna in campo la riflessione filosofica che abitua al pensiero razionale e porta alla riflessione sull'agire concreto e sul suo valore morale, qui tornano in campo quei cittadini-filosofi che vogliono mettersi insieme per migliorarsi, per aumentare i propri livelli di consapevolezza e per farsi diffusori di consapevolezza e di senso critico, per mettere da parte le parole d’ordine e gli slogan in nome di un pensiero che si sviluppa in una libertà condivisa. 

 

Un abbraccio.

 

Antonio

4. Augusto Cavadi

Da qualche giorno Orlando Franceschelli ha lanciato un appello per un flashmob filosofico online suggeritogli dalla pandemia in corso ... link

5. Corrado Ocone

Corrado Ocone parla delle conseguenze di quanto stiamo vivendo sia sulla nostra vita individuale sia sull'economia e sulla società in un mondo globalizzato. Continuate a seguire, commentare, intervenire sulla pagina di Sfera. link

6. Edoardo La Ragione

 

Ineliminabile alterità, ultimi uomini e la luce della solitudine 

 

Accettando il prezioso invito del professor Orlando Franceschelli ad un “flashmob filosofico”, lanciato il 16 marzo 2020 sul sito https://karllowith.jimdofree.com con l’articolo «Virus, madre natura e stoltezza umana: che significa vincere la guerra contro l’attuale pandemia?», volto a creare un momento di riflessione davanti alla crisi che in questi giorni stiamo vivendo, vorrei dedicare qualche riga a ciò che questa credo possa offrire come occasione di pensiero.

Il prof. Franceschelli si chiede che cosa significhi vincere la guerra contro l’attuale pandemia. È chiaro che questa guerra è combattuta da tutta la comunità, a cui si chiede di essere unita e a muoversi collettivamente secondo le misure di prevenzione che il governo ha disposto, ma è altrettanto chiaro che, proseguendo con questa metafora, il fronte dove si combatte in prima linea la guerra contro il coronavirus sono gli ospedali e, in generale, ciò che l’emergenza mobilita è l’apparato medico-scientifico, chiamato alla gestione dell’emergenza e alla escogitazione nel più breve tempo possibile di un rimedio; possibilmente un vaccino. La scienza si rivela dunque essere l’Atlante che sorregge il mondo, la forza in campo a cui la comunità affida le proprie speranze. 

Essa è l’incarnazione più radicale di quella forma di razionalità elaborata dall’Occidente che vuole dominare il reale per poterlo prevedere e mettersi al riparo da ciò che da un momento all’altro può irrompere a scompaginare l’ordine rassicurante del quotidiano. 

Di cosa stiamo facendo esperienza in questi giorni se non di un qualcosa che può irrompere nelle nostre vite e che, anche il potente apparato scientifico non aveva previsto, trovandosi all’improvviso a dover fronteggiare? Di fronte a ciò, possiamo pensare che la situazione sia stata gestita più o meno bene, che la politica si sia mossa con più o meno efficacia, che sia stato un errore umano o che ci sia dietro una realtà che non ci dicono o ancora altro. Tutte le analisi che possiamo fare, le spiegazioni che vogliamo trovare sembrano però eludere ciò che un evento come questo mostra. Se da una parte infatti vi è la potenza della scienza, chiamata a trovare al più presto un rimedio per poter controllare e quindi superare quel fenomeno finora ignoto, dall’altra l’evento del virus ci ricorda la radicale fragilità del nostro esserci che si trova sempre esposto alla possibilità dell’irrompere del nuovo che sconvolge ogni sicurezza. Il volto del nuovo può essere quello della lieta sorpresa, come quando riceviamo un regalo inaspettato, ma anche, come sperimentiamo in questi giorni, della disgrazia. 

Nella crisi però emerge sempre qualcosa di più radicale di ciò che nella pacificazione ci è nascosto. Questa costitutiva fragilità svela ciò che la nobile pretesa della ragione scientifica rimuove, ovvero il nostro non esser proprietari dell’esistente, il fatto che la pretesa di sicurezza, di controllo, di dominio che sempre più sembra ossessionare le nostre vite si infrange davanti all’im-previsto. Questo scoprirci vulnerabili può essere però l’occasione per una regale umiltà del pensare e dell’agire, che dismettano la pretesa totalitaria sul reale e che si facciano innanzi come un pensiero che riceve e una prassi che sia apertura accogliente dell’evento. 

Questa disposizione essenziale del nostro essere nel mondo non è una mera passività o un pensiero che debba destituire la pretesa scientifica di padroneggiare questi eventi. Le due vie non divergono. È bene che la scienza, nei limiti in cui può, allevi i dolori che è in grado di alleviare. In interiore però, quando l’anima è turbata dall’angoscia, siamo portati ad interrogarci sul senso del nostro esserci, e delle cose ultime che solo l’indeclinabilità delle situazioni limite sa mostrare. Nella povertà della nostra condizione può emergere la luce rischiarante di una più alta liberazione. La volontà di dominio, di controllo, di espulsione del negativo sono forme che oltre una certa soglia generano maggiore infelicità di quella che vogliono esorcizzare.

Espellendo il negativo, la vita si atrofizza nella ripetizione dell’identico della noia, non essendo essa, come scriveva Ernst Jünger, altro che «dolore diluito nel tempo» (Sul dolore, in Foglie e pietre, Adelphi, Milano 2012, p. 150). Il negativo, il dolore, la morte, sono parte integrante della condizione del nostro esserci. Una società che li renda un tabù, solo un negativo da estirpare con la forza, rischia di ammalarsi, perché incapace di fornire senso a quelle dimensioni negative ineliminabili. 

Disporsi invece verso un’accoglienza rispetto alla possibilità di irruzione dell’evento del negativo, libera dall’ossessione del controllo; è un movimento di resa, in cui ci rimettiamo nelle mani dell’Altro, sgravandoci dalla narcisistica ossessione di dominarlo.

In questa dimensione non securitaria, non appropriativa, ma donativa, si apre quella gioia del donare, che ha il suo vertice nella possibilità del dono di sé, che, come ci ricordano le parole riportate da San Paolo (At 20,35.), è superiore ad ogni ricevere. 

L’occasione che l’emergenza del virus offre non deve quindi limitarsi ad una meditazione sulla nostra finitezza o a una passiva litania sulla precarietà dell’esistenza ma può essere l’occasione di questa apertura donativa, condizione per progettarsi autenticamente come singoli e come comunità, aperti a quel nuovo che solo le grandi crisi sanno dischiudere.

L’appello del professor Franceschelli a ripensare, sulla scia del pensiero di Karl Löwith, il nostro rapporto con la natura che, attraverso il volto minaccioso del virus, torna ad inquietarci, è del tutto in linea che lo spirito che animano queste righe. La natura, ridotta dalla modernità a res extensa da dominare tecnicamente, e quindi “trasformata da ambiente-dimora in ambiente-incubo” è una delle figure più profonde di quella volontà di dominio che l’Occidente ha incarnato, di quella volontà di ridurre l’Altro all’Eguale e che rischia di portarci, nonostante le conquiste della tecnica e della scienza, a svuotare di senso il nostro abitare il mondo.

Oltre a ciò, mi sembra di poter constatare che la crisi che stiamo vivendo sia totalmente priva di qualsiasi narrazione che non sia quella della mera cronaca, delle statistiche, delle apparizioni televisive dei vari premier ad annunciare i prossimi provvedimenti. L’indulgenza plenaria data qualche giorno fa da papa Francesco davanti ad una deserta piazza San Pietro, è stato un gesto di una qualche intensità e forse il Cristianesimo è ancora in grado di fornire una qualche risorsa simbolica, ma la sensazione che ci lascia è quella di un estremo tentativo nella notte, un gesto che commuove quasi più per la nostra incapacità di aderirvi davvero. La situazione generale quindi sembra quella di una totale assenza di orizzonti di senso ulteriori rispetto ai bruti fatti statistici dei contagi e delle morti. Ma la vita così spogliata di ulteriorità è nuda davanti al dolore e quest’ultimo diventa ancora più difficile da accettare «perché non colpisce il corpo come un semplice avamposto, ma colpisce il quartier generale, il nucleo essenziale della vita stessa» (Sul dolore, cit., p. 153). Quando infatti non v’è nient’altro oltre alla vita, quest’ultima anela soltanto alla sua conservazione e la salute diventa il valore supremo. È ciò che Nietzsche annunciava nella figura dell’ultimo uomo: «Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute» (Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 2010, p. 12). 

In questo modo, l’uomo rischia però di vivere un’esistenza senza nessun altro scopo che la conservazione della vita, il suo mero prolungarsi o il suo indefinito potenziamento. L’emergenza del coronavirus sembra svelare questa nostra nudità che non è quella dell’essere esposti ma quella di un esistenza attiva che però non riesce nella sua attività a vedere nient’altro che se stessa. È la condizione dell’uomo occidentale che riduce anche il lavoro stesso a nuda attività, totalmente immerso in un iper-attivismo volto ad un cieco miglioramento indefinito delle proprie prestazioni fine a se stesse.

In uno scenario così, diventa allora essenziale saper disinnescare l’immersione totale nel commercio delle cose, fermarsi e fare ciò che Pascal diceva essere la cosa più difficile: il saper stare tranquilli in una stanza. In questi giorni di quarantena, in questo mondo sospeso, possiamo fare questa esperienza che, alle soglie della modernità, consigliava anche Montaigne quando scriveva: «Bisogna avere mogli, figli, sostanze, e soprattutto la salute, se si può, ma non attaccarvisi in maniera che ne dipenda la nostra felicità. Bisogna riservarsi un retrobottega tutta nostra, del tutto indipendente, nella quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine» (Saggi, Bompiani, Firenze-Milano 2017, p. 220ed è ciò che risuona nelle parole di Heidegger in una lettera a Elisabeth Blochmann: «Io credo che un’epoca di solitudine dovrà impadronirsi del mondo, se esso vorrà prendere ancora una volta fiato per un nuovo creare che restituisca alle cose la loro essenziale energia» (Carteggio 1918-1969, Il Nuovo Melangolo, Genova 1991, pp. 147-148). 

Che questa luce della solitudine riecheggi anche per noi.

7. Michele Ricciotti 

 

Durante un dialogo che ho avuto modo di avere con il professor Orlando Franceschelli, in occasione di un seminario organizzato dal centro di ricerca ICONE presso il Palazzo Arese Borromeo di Cesano Maderno, parlando un poco con lui del capolavoro di Karl Löwith Dio, uomo e mondo, il professore mi disse che Löwith aveva capito che se si vuole essere veri filosofi, non bisogna mai dimenticare che di queste tre cose bisogna anzitutto occuparsi: di Dio, dell’uomo e del mondo. Questi sono i termini che orientano ogni indagine genuinamente filosofica, le categorie entro cui chi vuole servire il pensiero deve ineluttabilmente muoversi. Il pensiero filosofico tuttavia non ha sempre tenuto fede al principio della perfetta armonia che deve sussistere tra questi tre termini, in maniera tale che nessuno dei tre surclassi o si confonda con un altro. L’uomo deve rifuggire dalla tentazione di farsi Dio (pericolo che, insieme ad una corrispettiva e speculare deriva nichilistica, Jacobi già intravedeva nei germi del nascente idealismo), né rischiare di perdere il legame con il mondo-dimora di cui è chiamato ad essere ospite riguardoso. Non si tratta unicamente di stabilire un rapporto di rispetto o semplice “tolleranza”, ma di ricostituire l’originario equilibrio tra uomo e mondo, pensiero e natura. In tale direzione, del resto, si volgeva la concezione greca del bios theoretikos quale attività volta anzitutto a conoscere i principi supremi che regolano il cosmo e proprio in virtù di tale corrispondenza la stessa vita contemplativa veniva considerata attività più che umana, divina (in ciò si potrebbe già intravedere la perfetta armonia della “triade löwithiana”). Principio la cui pressoché totale dimenticanza ad opera dei moderni è resa esplicita da Goethe, là dove fa annunciare a Mefistofele: «È grigia, caro amico, qualunque teoria/Verde è l’albero d’oro della vita». Superfluo dire che lo sforzo goethiano era esattamente orientato verso un superamento di tale astratta contrapposizione, nel tentativo di recupero dell’intimo e magico legame che unisce tutti gli enti. Solo ristabilendo tale legame è possibile, usando un’espressione dello stesso Franceschelli, «svezzarsi con saggezza dall’eredità teologica», e, insieme, non vedersi immediatamente riassorbiti nel vortice dell’antropocentrismo dualistico cartesiano fondato sul ripiegamento riflessivo dal mondo all’io, movimento caratteristico dell’intera metafisica moderna. 

Nella situazione di isolamento forzato in cui ci troviamo, il pensiero può contribuire a rinsaldare la comunità, forse a rinnovarla. Ma al di là di vuoti e retorici richiami alla riflessione (in questi giorni se ne sono sprecati), un pensiero sopra tutti dovremmo sforzarci di attualizzare, sollecitati dalla bella iniziativa di un «flashmob filosofico» lanciata dal prof. Franceschelli sul sito karllowith.jimdofree.it: non c’è un grigio del pensiero contrapposto al verde della vita; il pensiero è il frutto sempre acerbo del misterioso (divino) albero della vita. Il pericolo che si nasconde nella mancata saldatura di questo legame è stato intuito dal grande Novalis. In un contesto in cui il poeta si sforza di armonizzare l’espressione culturale più tipicamente umana, il lavoro, con le nascoste e profonde magnificenze della natura, si legge: «La natura non vuol essere possesso esclusivo d’un solo. Se tale, si muta in un perfido veleno che scaccia ogni pace e mena la fatale brama di attrar tutto nel cerchio del possessore, con una sequela d’affanni infiniti e di selvagge passioni. Così essa scava la terra sotto i piedi di quello e presto lo seppellisce nell’abisso aperto, per passare di mano in mano e gradatamente soddisfare, così, la sua disposizione a esser di tutti» (Enrico di Ofterdingen, trad. it. di T. Landolfi, Adelphi, Milano 1997, p. 73). In queste così attuali parole l’invito a riguadagnare «la disposizione a esser di tutti» della natura si fa quanto mai urgente. L’auspicio è quello di riacquistare la consapevolezza del carattere spontaneo del divenire del mondo, di quella stessa spontaneità che contraddistingue ogni autentico e sincero “flashmob”, anche filosofico.

8. Luigi Sala 

 

Ringraziando il Prof. Franceschelli per le sue lucide analisi su questo momento di “crisi virale”, vorrei soffermarmi su tre punti essenziali trapelati dal suo discorso. 

1) L’abitare la terra da parte dell’essere umano. Questi non la abita, bensì la occupa. Egli non dilata lo spazio ma, al contrario, lo comprime finché esso non collassa su se stesso. L’uomo ha, in tal senso, bisogno di spazi sempre più ampi, che si adattino alla sua tendenza connaturata all’estensione. Lo spazio circostante, orizzontale, non gli basta come sfondo e così la sua vita si verticalizza: la natura non gli basta, non soddisfa i suoi interrogativi, il suo agire. Le azioni umane creano “vertici spirituali e tecnici”: se lo spirito lo aiuta a spiegare la creazione di tutto, la tecnica lo aiuta, invece, a controllarlo, questo tutto. Dei, religioni, monumenti, arte, strumenti vari, armi, ecc.: ciò tende verso l’alto. Ma questo alto dà alla testa all’uomo che si trasforma in Dio: il vertice ricade così sull’uomo stesso. L’uomo è il vertice, occorre ripiegarlo perché assuma una posizione più orizzontale. Propositi per un nuovo umanesimo: per una visione orizzontale dell’uomo. 

2) La filosofia non ha leader. Purtroppo ne ha e di due tipi: santoni e fanfaroni. Il santone filosofo è colui che con la sua spocchia ulula, dai nostri schermi, ciò che andrebbe fatto per il bene e mai si prodiga per il bene pubblico comune. Ipostasi della ragione, o della regione a cui appartiene, andrebbe detronizzato, cioè de-televizzato. Ragione… Modesta, moderata.  Sull’altro versante, troviamo il fanfarone: bello e benedetto dagli schermi bene d’Italia. Le televisioni richiedono la sua presenza affinché ci illumini con la sua saggezza e la sua criticità, di modo che le masse si sollevino. Ma, come diceva Pasolini, la televisione è strumento coatto di potere: la televisione non veicola il messaggio del rappresentato, bensì se medesima come messaggio semplificato. Le masse non recepiscono il fanfarone-thought, bensì la sua immagine televisiva: il filosofo è giovane, aitante, colto, ecc. La filosofia non è un convivio, diceva Gilles Deleuze, tant’è che egli preferiva ubriacarsi a tavola, anziché sproloquiare invano.   

3) Il filosofo giusto. Il vero filosofo è un guerrigliero del pensiero (citando il Maestro Tagliapietra). Non si vede, sta nelle retrovie, nascosto tra le liane della giungla del sapere. Tuttavia, al momento opportuno, riappare, passa all’avanguardia del pensiero e pensa per demistificare le falsità del mondo. È una macchina da guerra, un’arancia meccanica pronta ad esplodere, un carrarmato di pensieri e opinioni che le masse non recepiscono o non vogliono recepire. Il vero filosofo è incompreso, ghettizzato, vive negli anfratti buoi dell’esistenza, solo, melanconico, sciatto, trasandato. È l’anti-schermo, non gli interessa apparire, bensì affermare il vero, anche quando è sconveniente od ostico. La sua forza sta nel margine, nella provincia, nella tana nascosta, nella migliore strategia: fare filosofia è una posizione del mondo, un’affermazione di potenza speculativa per salvarlo dall’ignoranza e ridestare nelle masse capacità critiche. La questione fondamentale è: come possiamo rendere efficace una strategia di lotta senza mostrarla? La guerra è vinta prima di essere combattuta…

9. Angelo Fadda

Come è noto, il pensiero del prof. Franceschelli, come testimoniato dalle sue numerose pubblicazioni, è la completa non dissimulata accettazione del punto di vista del naturalismo filosofico.

Data la gravosa difficoltà sanitaria  che attualmente imperversa in ogni parte del mondo, in questa sua breve intervista egli ci invita, da buoni e onesti cittadini che hanno a cuore le sorti della società umana e non solo, a riflettere e ad  interrogarci  sulla realtà del mondo che ci circonda, sul modo in cui si possa imparare a conoscerlo e a controllarlo e con quali scopi. Egli ci esorta a riflettere su noi stessi, sui rapporti che abbiamo con la natura, a trovare la forza di reagire per superare questo momento storico per uscirne migliorati, ad analizzare ed eventualmente modificare i nostri comportamenti etici, politici, sociali, ad essere com'egli genericamente sintetizza "resilienti".  La guerra, com'egli dice, che siamo chiamati a combattere non è solo quella contro il Covid 19 rispettando alla lettera tutte le indicazioni che provengono dalle autorità sanitarie, ma è anche quella contro i parassiti della sofferenza pronti a trarre vantaggi in ogni occasione, contro  l'ignoranza,  l'indifferenza, l'egoismo, contro  lo sfruttamento senza limiti delle risorse naturali e più in generale contro i nemici della natura di cui siamo solo una parte e non i padroni. 

Accogliendo l'invito che il  prof. Franceschelli  rivolge a tutti i cittadini, compresi i non filosofi di professione come me, dico che se si adottasse in ogni campo il punto di vista naturalistico questo potrebbe essere di grande aiuto a vincere quella guerra. Tutte le cose  si devono poter spiegare come non dipendenti da una causa soprannaturale ma come interdipendenti le une dalle altre. Questo non significa ridurre tutto a materia. La vita e lo spirito dell'uomo dovrebbero essere compresi  in termini biologici. L'individuo è il prodotto della società, così come la società è il prodotto dell'individuo. Una vasta rete di costumi, di abitudini, di convenzioni, di lingua, di idee tradizionali forgia rapidamente l'individuo sin dalla nascita. Questa eredità sociale è così profonda che spesso si crede sia biologica o fisica. Essa è solo il prodotto della trasmissione sociale di abitudini mentali degli adulti. Tutti i nostri istinti sono stati modificati e controllati dall'educazione sociale sin dalla prima infanzia.  Solo l'educazione  e la conoscenza potranno  aiutarci a sconfiggere l'ignoranza  e l'impotenza  a dominare il corso degli eventi. Compito della filosofia dovrebbe allora essere  quello di chiarire l'importante funzione dell'educazione, contribuendo a superare le idee degli uomini sui conflitti morali e sociali del loro tempo. Il contributo del prof. Franceschelli attraverso la sua intervista coglie pienamente questo aspetto.

10. Carloalberto Brunori 

Apriamo la Volontà di potenza e andiamo al frammento 507. Nietzsche afferma che «il fidarsi della ragione e delle sue categorie, della dialettica, quindi l’attribuire valore alla logica, dimostra soltanto la loro utilità, provata dall’esperienza, per la vita: non la loro “verità”. (...) È necessario che qualcosa debba essere tenuto per vero – ma non che qualcosa sia vero» (F. Nietzsche, La volontà di potenza, tr. it. M. Ferraris e  P. Kobau, Milano, 2001, p. 280).

Qualche pagina più avanti, nel frammento 515 il filosofo di Röcken afferma:

«Non “conoscere” ma schematizzare, imporre al caos tanta regolarità e tante forme, quanto basta per soddisfare il nostro bisogno pratico. Nella formazione della ragione, della logica, delle categorie, il bisogno è stato il criterio determinante: il bisogno non di “conoscere”, ma di sussumere, di schematizzare, al fine di intendere e di calcolare» (F. Nietzsche, La volontà, cit., p. 283).

Cosa c’entrano queste frasi con l’attuale situazione, drammatica e dolorosa, generata da un virus il cui nome – COVID 19 – rimarrà indelebile per tutto il corso della nostra vita?

Mai come in questi giorni, ci percepiamo esposti ad un’alterità irriconoscibile e indefinibile. COVID 19 è soltanto una sigla, un’unione di lettere, che cela dietro di sé un abisso senza limiti e confini. Questa nostra insostenibilità dell’altro, dello sconosciuto è attestata da quelle affermazioni degli scienziati, che molte volte – e forse mai come in queste settimane – ospiti dei talk show televisivi, sono costretti a rispondere «non lo so», alle domande poste dai giornalisti. 

«Non lo so». Ecco ciò che ci colpisce, ecco cosa ci annienta. Non la paura, ma l’angoscia. Laddove come afferma Heidegger, se la paura ha sempre un oggetto a cui riferirsi, se la paura è sempre paura di qualcosa; non così per l’Angst. L’angoscia ci angoscia: proprio perché non sappiamo quale è il suo contenuto; proprio perché non sappiamo da dove proviene; proprio perché non riusciamo a stabilire la sua misura.

Nell’angoscia questo “non” non definisce la negazione di qualcosa di determinato, bensì è segno ed espressione di un Nulla ben più originario, di un nulla in cui tutto è possibile, ma niente è definibile. Nell’angoscia sparisce non il mondo, ma la correlazione universale dell’esperienza. L’inabissarsi dell’Ana-logia che regge l’esperienza dell’essere-nel-mondo.

Spesso si descrive l’attuale situazione con la metafora della guerra; una metafora efficace per esprimere quella sensazione di precarietà che caratterizza oggi le nostre vite, ma forse non propriamente corretta. Solitamente, infatti, in una guerra sappiamo chi è il nostro nemico, conosciamo i suoi punti di forza così come i suoi punti di debolezza. In questo caso, invece non conosciamo il nostro nemico. 

Ecco che, questa considerazione, così apparentemente banale e superficiale – tocca il cuore del problema che vorrei mettere in luce. 

Cosa può mai l’uomo, senza la sua “conoscenza”? Cosa può mai l’uomo quando non in grado di de-finire il caos che ha di fronte?

Questo nemico oscuro ed estraneo, evidenzia le nostre difficoltà a rapportarci a qualcosa che non riusciamo a immobilizzare, a cristallizzare nelle forme rigide del nostro sapere. Come bene evidenziano quelle frasi di Nietzsche, il sapere umano – se vogliamo: la scienza che di quel sapere costituisce la forma più alta e maestosa –, non è in realtà che un modo di cui l’uomo dispone per accostarsi alla realtà. La scienza non è vera; la scienza è utile, ossia: la scienza, grazie alla sua capacità di fissare in forme la motilità della vita («È necessario che qualcosa debba essere tenuto per vero – ma non che qualcosa sia vero»); grazie alla forza di dominare il caos, grazie alla sua possibilità di fornire previsioni, altro non è che un modo per resistere al fluire del divenire della vita. Laddove per Nietzsche, mondo, vita, realtà, essere, dicono il medesimo, cioè: caos contro cui noi sempre siamo costretti a lottare.

Aristotele definisce l’uomo come zóon logòn échon, animale dotato di lógos. I latini tradussero questa espressione con animal rationalis.

In questa definizione è come se dell’uomo dimenticasse la sua origine; è come se andasse persa quella radice sanscrita bhu-, che successivamente diverrà hu- (da cui anche humus = terra). È come se si dimenticasse che egli è anzitutto “creatura generata dalla terra”. Scissione dall’origine che pare evidenziarsi quando nella Meccanica, Aristotele scrive: «con la téchne – con la scienza – procuriamoci quelle vittorie che la natura tenta di impedirci» (Aristot. Mech. 847a 21, tr. it. Meccanica, a cura di M.F. Ferrini, Milano 2010, p. 165).

Ecco che se volessimo trarre una conclusione da queste brevi considerazioni, potremmo dire che l’uomo occidentale, sbilanciandosi totalmente verso la razionalità – come si evince benissimo dal Nietzsche di Heidegger – ha dimenticato di essere animale.

Ha dimenticato di lottare per la vita. Ha dimenticato di lottare contro il caos. Lo sviluppo della tecnologia, i successi della scienza, l’abitudine ad adagiarsi a sempre più superficiali comodità, ci hanno fatto dimenticare questo elemento animale costitutivo della vita. Ci siamo dimenticati di essere anche animali. 

All’interno di un corso intitolato La volontà di potenza come conoscenza, Heidegger riprendendo una frase di Nietzsche, afferma che, così come la medusa vince le insidie del mare grazie ai suoi tentacoli, l’uomo cerca di resistere al caos della vita attraverso il suo apparato tentacolare, ossia il lógos, la ragione. 

Queste riflessioni non vogliono soffermarsi su quello che è, a mio avviso, soltanto il lato più superficiale della questione, ossia la finitezza dell’uomo. Ché chiunque ha la possibilità di rendersi conto di come questa emergenza ci abbia fatto rendere consapevoli della nostra finitudine, della nostra parzialità, e della nostra impotenza di fronte ai fenomeni del mondo. No, non la consapevolezza della finitudine è qui in gioco, ma l’oblio del nostro essere viventi, del nostro essere animali, e non soltanto razionali.

Drammaticamente giungono all’orecchio le parole di Rilke. Del Rilke che nell’VIII Elegia Duinese elogiava l’animale, ossia quella forma vivente, quella creatura che «con tutti gli occhi vede l’aperto». Solo l’uomo è impossibilitato e vedere il caos nella sua purezza, nella sua dinamicità. «Ciò che è fuori lo sappiamo soltanto dal viso dell’animale». Noi, infatti siamo condannati a sapere, «noi nemmeno per un giorno soltanto, abbiamo lo spazio puro davanti a noi, in cui infiniti si aprono i fiori» (R.M. Rilke, Elegie Duinesi, tr. it. F. Rella, Milano, 1994, p. 85). Ove questa condanna non è tanto dovuta alla nostra natura, ma al destino (*) cui siamo inviati a partire dall’oblio della nostra animalità. 

(*Ove destino non indica la cieca necessità, ma è la traduzione del termine tedesco Shicksal, che rimanda a Shickung = invio, missione).

C’è uno scompenso incolmabile tra la veemenza del vivere, che l’uomo equivoca come possesso del mondo, tra l’ansia di totalità, che si accompagna a ogni tumultuoso intreccio di esperienza, e la circoscritta trama dell’esistere, in cui alla fine si trova invischiato.

Chi è l’uomo? Come direbbe Nietzsche, soltanto “l’animale più malato”.

11. Giuseppe Cappello

 

Boris Johnson e il soffio di Anassimene (7 aprile 2020)

 

Forse non è noto a tutti come Boris Johnson abbia studiato Antichità Classiche all'Università di Oxford; che abbia rilasciato un'intervista in cui ha sostenuto che lo studio del latino «è un inizio eccellente per comprendere la struttura della lingua» e si sia di conseguenza battuto per reintrodurre lo studio dei classici nella convinzione che quella conoscenza non possa essere «limitata soltanto a chi ha avuto il privilegio di un'educazione privata»; forse è ancora meno noto come egli sia l'autore di un libro dal titolo Il sogno di Roma. La lezione dell'antichità per capire l'Europa di oggi.

 

Probabilmente nel torpore e soprattutto nelle apnee della terapia intensiva dove ora egli si trova potrebbe essergli venuto il pensiero del frammento di Anassimene, uno dei primi tre filosofi della storia del pensiero occidentale, che recita esattamente così: «Come l'anima nostra, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l'aria sostengono il mondo intero».

 

Noi a Boris Johnson, la cui politica abbiamo avversato in ogni pensiero fino alla malaugurata realizzazione della Brexit, auguriamo di rimettersi. Rimettersi nel fisico e soprattutto nell'animo. Perché questo augurio, individuato in Johnson uno dei rappresentanti per eccellenza dell'uomo contemporaneo, possa essere l'augurio di rimettersi, nel fisico e soprattutto nell'animo, allo stesso uomo contemporaneo.

 

Un uomo contemporaneo, ci insegna in maniera emblematica la storia che stiamo vivendo, che è l'uomo che pure consapevole di essere un'anima che respira all'interno di un cosmo che respira, ha pensato di poter togliere il respiro all'anima del mondo senza toglierlo a se stesso; di mettersi in privato, accecato dalla sua convinzione sociologica, anche nella sua dimensione biologica. Sennonché qui, pure il più potente che pensava addirittura di mettersi in privato prima sociologicamente con la Brexit e poi di fronte alla pandemia della biologia, ha trovato una potenza, quella della natura, che gli ha dato un altolà e lo sta rimettendo alla prova sia sulle convinzioni sociologiche come, ancora più in fondo, su quelle biologiche.

 

Lo sta, ci auguriamo, riportando alla consapevolezza perduta, della lezione dei classici, che l'uomo non si può mettere in privato né sulla via dell'economia né su quella dell'ecologia. Che abbattere a colpi di mannaia lo stato sociale e insuperbire fino a pensare di poter manipolare addirittura lo stato naturale è il più grande atto di tracontanza che Eschilo aveva stigmatizzato proprio nell'uomo più potente del suo tempo; che, nella sua tragedia de I Persiani, aveva stigmatizzato nel tentativo di Serse di abbattere la democrazia greca e, soprattutto, di pensare di poterlo fare immaginando che la sua tecnica potesse essere addirittura una tecnica con cui strumentalizzare ai propri fini la natura.

 

Aveva immaginato, Serse, di costruire un ponte di navi dove la natura si era costituita in un tratto di mare; e aveva immaginato che attraverso questa forzatura della physis avrebbe potuto forzare anche la democrazia della polis. Cosa che non gli riuscì. Perché i Greci, che avevano nella metriotes, la misura a dispetto della tracotanza, il paradigma della loro cultura, lo sconfissero a Salamina nel 480 a.C.

 

In uno degli insuperbimenti di un'antropocene ante litteram, il Re del più grande Impero del V secolo a.C si era consegnanto così alla sconfitta. La sua stessa madre, ne I Persiani di Eschilo, aveva visto in questo atto di hybris, di somma tracotanza, la causa di ogni male che il figlio aveva recato e a se stesso e al suo stesso popolo. Si legge nelle parole che l'antico Re Dario rivolge venendo in sonno alla moglie sul compimento del destino del figlio: «Come presto degli oracoli giunse, ahimè!, l'esito! / Il dio il successo dei responsi suscitò sul figliuol mio! / Io speravo che i Celesti ne tardassero l'evento; / ma se tu premi, lo stesso nume affretta il compimento. / Ecco, un fonte di malanni sugli amici ora s'è aperto: il figliuol mio lo dischiuse, baldanzoso ed inesperto, / che pensò dell'Ellesponto come un servo il sacro fiume / porre in vincoli, e del Bosforo le fluenti sacre al nume; / e stringendo ferrei ceppi sopra il tramite marino, / lo mutò, sí che all'esercito grande aprisse ampio cammino. Ei mortale, soverchiare s'avvisò – stolto consiglio! – tutti i numi, e fin Posídone».

 

Questo è quello che accade quando anche la più potente delle particula naturae pensa di potersi sollevare all'altezza di quel deus sive natura che è la realtà e mettere addirittura le mani su di essa. Che in verità solo su di sé, e malamente, le mette.

 

Così come nel sogno della regina Atossa venne in sogno Dario a spiegare le sorti del loro figlio Serse, vi è da augurarsi che nei sonni della terapia intensiva di Boris Johnson giunga la reminescenza dei suoi studi classici; a ricordare appunto, sia a lui sia a tutto il genere umano, quali sono le condizioni a cui ritornare sia nella ricostruzione del nostro stato sociale fino alla ricostruzione del nostro stato naturale. A ricordare come i Greci insegnano che, nell'economia e nell'ecologia, la prima parola di questi due termini composti sia appunto quella di oikia che, nella loro lingua, significa casa; e soprattutto a ricordare, nel segno della metriotes, che di queste due case dobbiamo ritrovare e, per l'una, il nomos e, per l'altra, il logos.

 

Il futuro, se non vorremmo cedere al pandemonio di questa pandemia che oggi ci affligge, passa per una augurabile rinascita delle consapevolezze dell'economia e dell'ecologia; un augurabile rinascita di consapevolezza che sola può essere il viatico di una rigenerazione del nomos, la legge della nostra casa sociale, e del logos, ovvero il principio ultimo della nostra stessa casa naturale; fino alla riconciliazione dell'«anima nostra che è aria» con «quel soffio e quell'aria che il mondo intero sostengono».

I commenti presenti nel blog del "Centro per la Filosofia italiana" link

 

Il nome di Karl Löwith è spesso associato ai suoi lavori di storia della filosofia e alla sua attività di "scepsi storiografica"  (segue)

Sezioni del sito

O. Franceschelli - Intervista su Karl Löwith

Karl Löwith - Treccani.it

Karl Löwith - New School Philosophy

Karl Löwith, Storia e natura. Scritti su idealismo e sinistra hegeliana, a cura di Flavio Orecchio, Castelvecchi, Roma, 2023.

Karl Löwith, Il cosmo e le sfide della storia, a cura di O. Franceschelli, Donzelli Editore, Roma, 2023.

S. Griffioen, Contesting modernity in the German secularization debat: Karl Löwith, Hans Blumenberg and Carl Schmitt in polemical contexts, Brill, Leiden, 2022.

Donaggio E., Karl Löwith: eine philosophische Biographie, tr. ted. di A. Staude con la collaborazione di M. Rottman, J.B. Metzler, Berlin, 2021.

Seconda edizione

Liebsch B., Verzeitlichte Welt: Zehn Studien zur Aktualität der Philosophie Karl Löwiths, J.B. Metzler, Berlin 2020.

Nuova edizione

Löwith K., Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, a cura di O. Franceschelli, Donzelli, Roma, 2018.

Karl Löwith, Sul senso della storia, a cura di M. Bruni, Mimesis, 2017.

Heidegger M., Löwith K., Carteggio 1919-1973: Martin Heidegger e Karl Löwith, edizione critica di A. Denker, a cura di G. Tidona, ETS, Pisa, 2017.

Fazio G., Il tempo della secolarizzazione. Karl Löwith e la modernità, Mimesis, Milano-Udine, 2015.

A. Tagliapietra, M. Bruni (a cura di), Le Rovine, ossia meditazione sulle rivoluzioni degli imperi, traduzione di M. Bruni, Mimesis, 2016.

Premio Nazionale Filosofia Frascati - 2016

Società Natura Storia. Studi in onore di Lorenzo Calabi, a cura di A. Civello, Edizioni ETS, 2016.

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09.09.2023